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La ripresa sta in noi

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Questo articolo di Natale D’Amico è pubblicato nella rubrica Upstream sul numero di Fortune Italia di maggio.

 

Ci risiamo. Quando l’economia globale cresce, l’Italia cresce meno. Quando il resto del mondo rallenta, l’Italia si ferma. In questo tragico anno della pandemia da coronavirus, per la prima volta nel dopoguerra il prodotto globale si ridurrà. In Italia sarà un crollo. Le previsioni formulate dal Fondo Monetario Internazionale e da tutti i previsori indipendenti sono impietose.

 

È possibile, purtroppo, che il Paese si rassegni a questo destino. Magari consegnandosi alle fumisterie della decrescita felice, agli ideologismi anti-consumistici, alle rimembranze autarchiche di un nazionalismo straccione. O, peggio, coltivando una speranza fideistica nella capacità dello Stato di abolire la povertà. Purtroppo i dati riguardo al prodotto, attuale e prospettico, non sono numeri astratti. Sintetizzano la qualità della vita delle persone, la loro possibilità di realizzare i propri desideri, di migliorare le proprie condizioni e quelle dei loro figli. Ha dunque senso non rassegnarsi, provare a reagire, tentare di sovvertire un destino che rischia di essere cinico e baro. L’Italia ha conosciuto i suoi periodi migliori quando si è pienamente inserita nel regime internazionale degli scambi di beni, di servizi, di persone, di conoscenze. Nei periodi nei quali ha prevalso l’atteggiamento di chiusura l’Italia ha accumulato ritardi. Di questo sono testimonianza sia il periodo a cavallo del ‘900, quello della prima globalizzazione moderna, sia l’ultimo dopoguerra. Vale a maggior ragione oggi, quando l’Italia si è specializzata nella produzione manifatturiera per l’esportazione e nell’offerta di servizi turistici. La costruzione dello Stato, della sua organizzazione burocratica, ma forse nel senso più ampio della costruzione di uno stato di diritto, è una debolezza costante nella storia unitaria.

 

Allo Stato venne affidata la soluzione del primo problema emerso con l’Unità: la questione meridionale. In 160 anni non si è fatto alcun passo avanti, almeno in termini relativi. La nostra giustizia è tra le più lente del mondo sviluppato. Dicono gli specialisti che siamo tra quelli che hanno maggiori problemi con le mafie di vario tipo. Quando siamo riusciti a fare qualche misurazione, ci siamo accorti che anche nella scuola siamo i fanalini di coda.

 

L’esperienza nella pandemia – fatto salvo l’eroico comportamento di molti medici, infermieri, personale di servizio – ci dovrebbe almeno far venire il sospetto che lo stesso possa dirsi per la sanità. A queste debolezze occorre cercare un rimedio. Ma ci vorrà tempo. Non potremo, non dovremo fare troppo affidamento sullo Stato. Dal lato opposto, nell’ultimo dopoguerra è emersa in Italia una vasta imprenditorialità diffusa. Capace di competere sui mercati globali, di introdurre innovazioni nei prodotti e nei processi funzionali. Ecco su cosa far leva. Qui lo Stato può svolgere due funzioni utili. La prima è nell’emergenza: il blocco della produzione e dei mercati mette a rischio la sopravvivenza economica di tanti tra questi piccoli imprenditori. La loro dotazione di capitale è scarsa, e così le loro riserve di liquidità. Lo Stato assicuri loro un accesso facilitato al credito, facendosi carico di parte del rischio. Lo si sta facendo, qui e altrove.

 

È essenziale che il processo non sia troppo lento e farraginoso, per evitare che tanti piccoli imprenditori siano costretti a buttare la spugna. Ma lo Stato deve svolgere un altro ruolo decisivo: non gravare questi piccoli imprenditori con un peso regolatorio troppo gravoso per le loro spalle. Occorre un vero e proprio percorso agevolato. La via può essere quella di generalizzare il meccanismo dell’interpello previsto in sede fiscale: un’impresa che voglia fare qualcosa di nuovo abbia il solo l’onere di notificare il proprio progetto; l’ufficio chiamato a ricevere queste notifiche le smisti verso le amministrazioni che hanno titolo a dir la loro, le quali hanno 30 giorni per pronunciarsi, dopodiché il comportamento prospettato dall’impresa viene considerato legittimo. Strano a dirsi, è il modulo che lo Stato adotta con sé stesso: gli atti del Governo che sono sottoposti a controllo preventivo della Corte dei Conti vengono notificati, e la Corte ha 30 gg per pronunciarsi, trascorsi i quali il “visto di legittimità” si dà per apposto. Ecco: che lo Stato riservi agli imprenditori lo stesso trattamento che riserva a sé medesimo. Forse basterebbe questo per evitare che la storia si ripeta, e ancora una volta l’economia italiana vada peggio delle altre. Perché questa volta peggio delle altre vuol dire cadere molto in basso.

 

La versione originale di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di maggio. Si può comprare in edicola e in versione digitale, oppure ci si può abbonare:

 

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