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Censurare Trump costerà caro?

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“Così la democrazia muore: per abuso di se stessa”. È un fatto: Platone non usava Facebook. Quanto segue non è una discussione sulla politica. Per comprendere Trump e i fatti di Washington è necessario combinare 3 fattori: una legge obsoleta, molti soldi e un concetto di democrazia e libertà estremamente idealizzato. Per spiegare chiaramente invoco la pazienza del lettore: necessaria per collegare i puntini.

 

La 230 e la ‘neutralità della rete’

 

1996, Internet è agli albori. I social network, come Facebook o Twitter, i motori di ricerca, come Google, e le piattaforme di e-commerce, come Amazon, non esistono. Le compagnie telefoniche hanno fiutato l’affare. Solo una cosa ostacola il futuro della rete: la responsabilità dei contenuti. Il terrore di ogni compagnia telefonica è che i contenuti che veicola in rete possano essere nocivi, pericolosi, e turbare l’opinione pubblica. I media tradizionali (giornali, tv, radio), allora come oggi, sono responsabili dei contenuti espressi (poiché creati e veicolati da professionisti). I nuovi media sono una ‘bestia strana’ e richiedono una soluzione differente.

 

Con la 230 nasce l’internet che conosciamo oggi. La legge è concettualmente semplice. La 230 protegge l’abilità degli allora provider (AOL e Compuserve, per esempio) di gestire chat-room senza avere la responsabilità per quello che gli utenti dicono in questi spazi virtuali. La legge assicura che, se un utente dice qualcosa di diffamatorio su una chat-room di AOL, l’utente, e non AOL, sarà considerato responsabile. Nel caso che AOL decida di rimuovere il contenuto pericoloso, filtrarlo o altre azioni preventive, AOL sarà protetta da una clausola definibile del ‘buon samaritano’. La legge chiarisce che AOL può gestire il servizio come vuole, ma non sarà mai perseguita per azioni di terze parti nelle sue chat-room o altre aree virtuali. La 230 permette oggi a Google di mostrare i risultati delle ricerche senza particolari problemi, o a Facebook di organizzare il suo algoritmo come preferisce; nessuna delle due aziende (o le altre della stessa famiglia) possono essere ritenute colpevoli per contenuti terzi. Quindi, per esempio, quando Mark Zuckerberg dice che si sente responsabile per quello che accade sulla sua piattaforma mente. La legge (che Mark sicuramente conosce) dice una cosa differente.

 

Già nel 2016 differenti senatori si domandarono se la 230 non fosse da “sistemare”; e di recente i politici Gabbard e Gosar (repubblicani e democratici) han promosso una risoluzione per modificare la 230.

 

La fine dell’età dell’innocenza

 

Varata la 230 le cose vanno bene per due decenni, poi arriva il primo presidente social: Obama. Per farsi conoscere, durante le elezioni, utilizza i social media (Facebook e Twitter) con la classica strategia del viral marketing. Obama è perfetto: afro-americano, politicamente corretto, un figlio del popolo (anche se alcuni lo definiscono un WASP), moderno perché usa i social network e coinvolge sempre i media. Insomma tutto il mondo è con lui.

 

Poi arriva Trump: famoso per i suoi show, uomo di successo, palazzinaro storico di New York, diretto, politicamente scorretto. Per i social media termina l’età dell’innocenza.

 

Quando Trump venne eletto presidente nel 2016 spiegai, pochi giorni prima, come Trump avesse già vinto le elezioni (contro ogni statistica ufficiale dell’epoca). Qualche mese dopo, quando Trump era presidente, spiegai quale sistema aveva usato per “hackerare” i social media e utilizzare gratis giornali, radio e tv. Trump utilizzò il big-seed marketing.

 

Questa strategia è meno conosciuta rispetto al viral marketing. Permette ad un individuo, che ha già molto seguito sui media sociali, di aumentare e ingaggiare i suoi followers dialogando direttamente con loro.

 

Questa strategia, tuttavia, non mediata da organi d’informazione strutturati, implica un aspetto critico: il soggetto deve avere sempre un tono e dei contenuti molto forti, per mantenere alta e costante l’attenzione. I toni forti, accesi, divisori, come vedremo in seguito, sono una ‘droga’ che genera dipendenza, negli utenti dei social media.

 

Trump, sin dall’inizio, ha utilizzato la leva dello scontro estremo. Ogni suo messaggio digitale, evitando di trasmetterlo ai media, obbligava questi ultimi a ‘seguirlo’ sui social network. Quando i giornalisti criticavano questo metodo, e i messaggi di Trump (a volte potenzialmente violenti e provocatori), creavano involontariamente un’amplificazione che a sua volta induceva altre persone a seguire Trump.

 

Questa strategia permise a Trump di “hackerare” i media tradizionali: senza pagarli ottenne da essi l’equivalente di spazi media per un totale di oltre 5 miliardi di dollari. La strategia della tensione aveva un vulnus che ben spiegai nella mia analisi del 2017: rischiava di portare a conseguenze estreme (fuori e dentro la Rete).

 

L’epilogo di Washington, di cui Trump non si assume direttamente la responsabilità, è il risultato di 4 anni di social media usati in modo spregiudicato.

 

L’intero “fenomeno Trump” poteva essere evitato? Sì. Ma il costo per i social media sarebbe stato immenso.

 

Gli adoratori della democrazia & libertà

 

I social media avrebbero potuto limitare o tentare di tarpare le ali al candidato elettorale Trump. Dopo tutto, i media tradizionali non erano stati gentili con lui sin dall’inizio della sua campagna, di fatto affossandolo pubblicamente in ogni statistica.

 

Fermare Trump sui social, tuttavia, non sarebbe stato un atto anti-democratico ma anti-economico. Prendere una posizione e agire di conseguenza pro o contro Trump, per i social significava ( come vedremo tra poco) mettere a rischio la loro libertà e neutralità… e soprattutto rischiare di perdere la 230 e i soldi da essa derivati grazie alla pubblicità.

 

La neutralità offerta ai social media con la vecchia 230 ha donato a Twitter, e soprattutto a Facebook, una smodata ricchezza. Twitter è il social network preferito da Trump per ‘sparare duro’. Tuttavia la crescita e la fermentazione di gruppi pro-Trump ha avuto luogo su Facebook.

 

I discorsi caldi, polarizzanti e magari un po’ estremi, sono il pane di Facebook. Per la precisione sono uno strumento, o meglio un tipo di comunicazione, che aumenta la ‘dipendenza’ da social network, tenendo le persone ancorate a Facebook. Il tempo speso dagli utenti in un social network diviene un indice di valore importante, quando si deve ‘promuovere’ la piattaforma presso i grandi investitori pubblicitari. Ma l’odio può avere degli effetti contro producenti.

 

Contenuti che pagano bene…

 

Il ‘valore’ dei contenuti è quello che permette ai social network, Facebook in particolare, di fare cassa. Come abbiamo detto, più tempo gli utenti passano sulla piattaforma maggiore è la capacità di raccolta pubblicitaria e Facebook, come già spiegava il New York Times, vuole il vostro tempo. Il termine ‘valore’, tuttavia, non deve trarre in inganno: il valore a cui si fa riferimento quando si parla di contenuti non è un concetto astratto, legato alla qualità eccelsa dei contenuti. Il valore è la capacità di un contenuto di tenere ancorati gli utenti alla piattaforma. Quali contenuti generano più valore? Quelli che incitano all’odio, polarizzano e in generale creano conflitti dialettici. A dirlo non è il sottoscritto ma numerosi esperti ed ex dipendenti di Facebook.

 

Chamath Palihapitiya, uno dei primi senior executive di Facebook, ha spiegato, di recente: “abbiamo ottimizzato Facebook per una profittabilità nel breve termine, a costo della democrazia”.

 

A rincarare la dose questa estate ci ha pensato l’ex direttore della ‘monetization’ di Facebook, Tim Kendall. In una testimonianza presso il Congresso ha spiegato come, al fine di creare maggiore ‘dipendenza’ da parte dei suoi utenti, in Facebook ci si era ispirati al ‘manuale delle big tobacco (le multinazionali del tabacco)’. La strategia di Facebook spiegata da Kendal sembra anticipare gli eventi di Washington. “Permettere a disinformazione, teorie cospirazioniste e fake news di fiorire era come i broncodilatatori delle Big Tobacco, che permettono al fumo delle sigarette di coprire maggior superficie dei polmoni”, sostiene Kendall. “Ma i contenuti incendiari non erano abbastanza. Per continuare a crescere il numero di utenti, e soprattutto il tempo e l’attenzione data a Facebook, si fece di più. Le aziende di tabacco aggiunsero ammoniaca alle sigarette per aumentare la velocità con cui la nicotina arrivava al cervello. Contenuti estremi, incendiari, immagini scioccanti, video, e titolazione che incitavano indignazione, seminavano tribalismi e divisione. Queste scelte di contenuti risultarono un ingaggio e profitto senza precedenti.”

 

A non tutti piace l’odio

 

Non tutti apprezzano questa politica di Facebook. In particolare questa estate è nata una campagna, in seno ai maggiori investitori pubblicitari di Facebook. Chiamata Stop Hate for Profit, sostiene che Facebook abbia contribuito a far crescere sentimenti razzisti e incitare violenza. Tra i partecipanti a questo progetto (che han sospeso gli investimenti pubblicitari su FB) ci sono The North Face, Patagonia, REI, Eddie Bauer e altri.

 

Odio e Facebook si conoscono da tempo. Sono le stessa Nazioni Unite che fanno presente come Facebook, dopo aver introdotto i suoi servizi in Myanmar, ha contribuito a favorire il genocidio in quella nazione. Per una nazione non abituata a internet e i social network le ‘voci’, pubblicate su Facebook, divennero un fattore chiave per la diffusione delle violenze sulla minoranza Rohingya. Intervistato in merito dalla giornalista di Recode, Kara Swisher, alla domanda se lui (Zuckerberg) si sentisse responsabile per le morti che Facebook aveva aiutato a indurre Mark rispose: “Penso che noi abbiamo una responsabilità (ma la 230 non dice questo Nda) di fare di più”. Ulteriormente pressato dalla giornalista rispose: “Voglio essere sicuro che i nostri prodotti siano usati per il bene”.

 

La posizione della Commissione Federale delle Comunicazioni

 

Ajit Varadaraj Pai è Chairman della U.S. Federal Communications Commission (FCC). Intervistato di recente sulla necessità di aggiornare la 230, ha spiegato che “c’è una posizione bipartisan (repubblicani e democratici) sulla necessità di rivedere e/o riformare questa legge”. In relazione al potere di Facebook e Twitter nelle ultime elezioni, Pai ha ribadito la sua posizione già espressa nel novembre 2017: “I social media definiscono la piazza pubblica quando si parla di politica. Abbiamo bisogno di maggior trasparenza e capire come certi contenuti sono o meno autorizzati su queste piattaforme”. Una riflessione non da poco, alla luce delle udienze di questa estate fatte dalla commissione bipartisan (in particolare le udienze guidate dal Senatore Ron Johnson of Wisconsin e Senatore Josh Hawley di cui suggerisco al visione integrale) per la revisione della 230. Le interviste dei senatori a Twitter, Facebook e Google dimostrano come i politici abbiano compreso una cosa: la supposta libertà, data dalla 230 ai social media, è stata abusata da queste piattaforme.

 

Quis custodiet ipsos custodes?

 

Chi controlla i controllori? Il latino è la lingua di Augusto Ottaviano, una figura che Mark ammette di ammirare molto. Che uno degli uomini più potenti del mondo moderno ammiri il primo imperatore di Roma, che ratificò la fine della repubblica romana, è tutto un programma… I social media pur rispettando la democrazia e la libertà, di cui è intrisa la 230, hanno deciso di metterci una pezza a questa festa di odio, istigatori e gente dissennata. Ma si sono mossi come un elefante in un negozio di porcellana… per ben due volte.

 

Il primo caso storico è di questa estate. Un giornale, il NYpost, secolare pilastro dell’editoria americana fondato nel 1801, pubblica un’analisi sulle attività del figlio di Biden, allora candidato presidente. Una storia molto dettagliata, di cui il NYpost garantisce di aver svolto due diligence (uno standard di analisi approfondita per le testate media che fanno giornalismo come si deve). Gli algoritmi di Twitter e Facebook (creati da uomini e donne delle medesime società, non Deus Ex Machina) rallentano e bloccano la diffusione di questa analisi sulle loro piattaforme. Scoppia lo scandalo. Non si parla di censurare un utente ma un media, e non un media complottista (stile Breibart) ma un media serio, rispettato e storico. I politici non si fan scappare l’occasione e mettono sulla griglia Zuckerberg (Facebook) e Dorsey (Twitter). I politici americani comprendono, una volta per tutte, che le piattaforme hanno il potere di censurare anche i media tradizionali e, cosa non meno seria, che nessuno controlla i social media.

 

Il secondo caso storico è di questi giorni. Autonomamente (a quanto pare) Twitter e Facebook sospendono a tempo indeterminato l’account di Trump. Resta una domanda: chi ha autorizzato due manager privati a censurare un presidente americano? Se avessero ricevuto un ordine dal Parlamento, dal Vice presidente e/o da altre forze democraticamente elette, sarebbe stato comprensibile. Ma fatto in questo modo, indipendente, è una scelta che conferma una certezza: la libertà di decisione di cui godono i social media è troppa. Se un Ceo può decidere, in modo indipendente, di censurare uno degli uomini più potenti del mondo (democraticamente eletto), quanto è il potere di cui dispone il ceo di un social media? Il titolo di un articolo di Wired rende bene l’idea sulla situazione: “Bandire Trump è facile, aggiustare Twitter e Facebook sarà difficile”.

 

Lo stesso Snowden (non un fan di Trump) twitta: “Facebook ha ufficialmente silenziato il presidente degli Stati Uniti. Bene o male, di sicuro questo sarà ricordato come un punto di svolta nella battaglia sul controllo delle discussioni digitali”.

 

Popper una volta scrisse “Se estendiamo la tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo preparati a difendere una società tollerante dall’assalto dell’intollerante, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con loro”.

 

È un fatto. Anche Popper non aveva Facebook.

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