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Licenziamenti, i conti con la realtà

L’Unione europea ha una posizione chiara sul blocco dei licenziamenti: è pericoloso e contrario al buon funzionamento del mercato del lavoro. È, sostanzialmente, la stessa posizione del premier Mario Draghi. Perché una soluzione emergenziale, per definizione, non deve diventare strutturale e perché se non si lascia libertà di movimento, anche in uscita, il sistema non evolve. Fin qui, la teoria. Poi, però c’è anche la realtà e ci sono una serie di elementi da considerare quando si parla di lavoro, in Italia, oggi.

Partiamo dalle parole della Commissione Ue. Il blocco dei licenziamenti “avvantaggia per lo più gli ‘insider’, cioè i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, a scapito dei lavoratori interinali e stagionali”. Obiezione corretta, che accende i riflettori su una disfunzione storica del mercato del lavoro italiano: la disparità tra garantiti e non garantiti rappresenta un gap che finora non è stato ridotto per responsabilità diffuse, della politica, delle imprese e dei sindacati. A fronte di una maggiore flessibilità, introdotta da riforme successive, non sono cresciute proporzionalmente le tutele di chi della flessibilità dovrebbe usufruire. Il blocco ai licenziamenti, in questo caso, è il problema? Sicuramente è vero che non aiuta l’ingresso di precari e stagionali ma cosa sarebbe accaduto senza?

Su questo punto Bruxelles sembra voler fornire una risposta. Un confronto con l’evoluzione del mercato del lavoro in altri Stati membri, che non hanno introdotto questa misura, “suggerisce che il divieto di licenziamento non è stato particolarmente efficace e si è rivelato superfluo in considerazione dell’ampio ricorso a sistemi di mantenimento del posto di lavoro”. Questa affermazione merita però un approfondimento. In Italia lo stop ai licenziamenti è stato legato all’accesso agli ammortizzatori sociali, in una formula che invece ha evidentemente funzionato finora.

Quindi, quale sarebbe la soluzione auspicata dalla Commissione Ue? Il commissario al Lavoro Nicolas Schmit ha suggerito di “passare a un mercato del lavoro più attivo”. Vuol dire, essenzialmente, scommettere sulla “riqualificazione delle competenze” e si torna al punto di partenza: “Non si può congelare per un lungo periodo il mercato del lavoro. Ma si deve facilitare la transizione”.

Sembra, e in parte lo è, un avvitamento senza fine. Il tema, come spesso capita quando si parla di politiche a sostegno del lavoro, è trovare il giusto compromesso e l’equilibrio corretto fra esigenze diverse. Senza dimenticare che un governo responsabile deve considerare, oltre alla buona dottrina economica, soprattutto la realtà contingente. E, a questo punto, entra in gioco la responsabilità delle imprese e la capacità degli imprenditori di avere uno sguardo lungimirante, non solo orientato a ristrutturazioni immediate e inevitabilmente dolorose. Consentire licenziamenti indiscriminati nella speranza di una successiva ‘compensazione’ non solo è rischioso per i lavoratori coinvolti ma anche per l’equilibrio complessivo del mercato.

Il blocco ai licenziamenti non si può protrarre all’infinito ma servono regole di ingaggio chiare, altrimenti si alimentano distorsioni. È come quando si parla della carenza di camerieri o di addetti in vari settori. Passa il concetto che gli italiani non vogliono più fare lavori ‘di fatica’. Poi però quando si va a vedere che si offrono poche centinaia di euro, per un periodo breve e a fronte di una pregressa esperienza consistente, le valutazioni necessariamente cambiano. In questa fase, la realtà non va persa di vista.

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