Crisi climatica, i ghiacciai che rischiano di scomparire

Ghiacciaio dei forni
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Nella torrida estate 2022, con il prezzo del gas volato alle stelle, la crisi climatica è apparsa in tutta la sua drammaticità. Dopo il crollo del seracco sulla Marmolada, che a inizio luglio ha causato 11 morti, sono seguiti diversi incidenti e numerose vittime in montagna, ‘spia’ di un’emergenza che sta diventando sempre più drammatica.

Una conferma arriva dal bilancio finale della terza edizione della Carovana dei ghiacciai, la campagna di Legambiente realizzata con il supporto del Comitato Glaciologico Italiano.

Il responso non lascia spazio all’ottimismo: i ghiacciai dell’intero arco alpino sono a rischio, minacciati dagli effetti della crisi climatica. I sintomi? Una perdita di superficie e spessore, che li porta alla disgregazione in corpi glaciali più piccoli e a trovare rifugio in alta quota.

Non si salvano i ghiacciai del Monte Bianco: il Miage, l’”himalayano” della Valle D’Aosta, in 14 anni ha perso circa 100 miliardi di litri di acqua (almeno 100.000.000 di m³di ghiaccio, pari a tre volte il volume dell’idroscalo di Milano) e il Pré de Bar, che dal 1990 ad oggi registra mediamente 18 metri di arretramento lineare l’anno.

Stessa sorte per il Monte Rosa con il Ghiacciaio di Indren che, in due anni, ha registrato un arretramento frontale di 64 metri, 40 solo nell’ultimo anno, dato mai registrato negli ultimi cinquant’anni anni e fortemente preoccupante per un ghiacciaio al di sopra dei 3.000 metri di quota.

E ancora il Ghiacciaio dei Forni, in Lombardia: il secondo gigante italiano (dopo l’Adamello) che, nell’ultimo anno, ha registrato un arretramento della fronte di più di 40 metri lineari, per un totale di circa 400 metri negli ultimi dieci anni, perdendo la sua qualifica di “himalayano” per effetto della frammentazione in tre corpi glaciali.

E la Marmolada, teatro della tragedia dello scorso 3 luglio, che il monitoraggio scientifico ha voluto osservare da lontano, facendo un passo indietro: tra quindici anni potrebbe scomparire del tutto, registrando nell’ultimo secolo una perdita di più del 70% in superficie e oltre il 90% in volume.

Il Ghiacciaio Occidentale del Montasio, in Friuli-Venezia Giulia, è l’unica eccezione osservata sulle Alpi. Il Montasio è infatti un esempio di ghiacciaio piccolo ma resistente che, pur avendo subito in un secolo una perdita di volume del 75% circa e una riduzione di spessore pari a 40 metri, dal 2005 risulta stabilizzato, in controtendenza rispetto agli altri ghiacciai alpini.

La terza edizione della Carovana dei ghiacciai ha percorso cinque tappe, partendo dai ghiacciai del Monte Bianco del Miage e Pré de Bar (Valle D’Aosta) dal 17 al 19 agosto, poi proseguendo con i ghiacciai del Monte Rosa di Indren (Piemonte) dal 20 al 22 agosto e ancora il ghiacciaio dei Forni (Lombardia), dal 23 al 26 agosto; il ghiacciaio della Marmolada (Veneto –Trentino) dal 27 al 31 agosto e per finire con il ghiacciaio del Montasio (Friuli-Venezia Giulia) dal 1° al 3 settembre.

La Carovana aveva già percorso lo stesso itinerario due anni fa. “Inimmaginabile quanto tutto sia cambiato in soli due anni – dichiara Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente – Inimmaginabile quanto tutto sia cambiato in soli due anni, ritornando sui ghiacciai monitorati dalla prima edizione della Carovana. Abbiamo conosciuto i ghiacciai da vicino, ne abbiamo osservato la sofferenza e ascoltato il loro urlo. Grido che dobbiamo raccogliere noi, in quanto cittadini, adottando stili di vita più sobri e sostenibili ma soprattutto i decisori politici, perché il tempo del cambiamento è adesso o mai più”.

La crisi climatica è in corso, e i ghiacciai ne “sono la sentinella principale – sostiene Giorgio Zampetti, direttore nazionale Legambiente – I dati raccolti richiedono in maniera inequivocabile un cambio di rotta immediato. Il Paese smetta di inseguire l’emergenza. Occorre accelerare piuttosto nelle politiche di mitigazione, riducendo drasticamente l’utilizzo di fonti fossili, e attuare un concreto piano di adattamento al cambiamento climatico. Ancora oggi però le risposte sono troppo frammentate se non addirittura sbagliate, allontanandoci sempre di più dall’obiettivo di arrivare a emissioni nette pari a zero nel 2040, per rispettare l’Accordo di Parigi”.

“Quello che abbiamo osservato e i dati che abbiamo raccolto durante questo viaggio per monitorare lo stato di salute del nostro arco alpino – aggiunge Marco Giardino, vicepresidente del Comitato Glaciologico Italiano e Università di Torino – è molto preoccupante, non solo dal punto di vista scientifico. Abbiamo messo i piedi sui ghiacciai, osservando i crepacci che aumentano, le fronti che arretrano, il loro ingrigimento e i crescenti rivoli d’acqua di fusione che scorrono sulla loro superficie. Abbiamo confrontato queste evidenze con fotografie e carte storiche. Ne abbiamo ricavato dati quantitativi indispensabili per interpretare gli effetti locali del riscaldamento climatico in atto e comprendere quali scenari futuri si attendono per l’ambiente d’alta quota e quali saranno le conseguenze sul paesaggio e sulle risorse del nostro Paese”.

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