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Energia e inflazione, come usciamo dalla crisi?

crisi energia

L’Istat ci dice che in Italia, con gli attuali trend, nel 2022 il numero dei poveri potrebbe superare i 6,6 milioni (pari all’11% della popolazione). Ciò ipotizzando una inflazione del 6% e un aumento del Pil del 3.4% (che già vuol dire decremento del Pil reale). Ma l’inflazione sarà probabilmente superiore (ora si parla del 9%) e le conseguenze della crisi energetica e delle sanzioni contro la Russia probabilmente ci porteranno in condizioni peggiori del previsto.

Ciò che rende particolarmente critica e allarmante la nostra situazione è il fatto che queste nuove emergenze ci trovano in condizioni molto più fragili e delicate rispetto agli altri Paesi europei e con anche minori possibilità di mitigazione dei nuovi fattori di degrado.

Infatti la nostra debolezza è frutto di un degrado socio-economico iniziato già tre decenni fa. Tale degrado ha subìto una accelerazione rispetto ai paesi a noi vicini negli anni 1995-2015. In quel periodo il nostro Pil reale è calato del 3% mentre quello di Francia, Germania, Spagna è mediamente aumentato del 25% (un differenziale quindi vicino al 30%) (dati Eurostat).

Nel 2020 (con i nostri lockdown più lunghi rispetto agli altri Paesi) abbiamo perso un altro 9% di Pil, solo parzialmente compensato con l’aumento del 2021, con un risultato cumulativo biennale peggiore degli altri paesi. Ma l’indicatore che più ci può far capire come eravamo diventati poveri già prima della pandemia è quello del Pil/Ppa (cioè il Pil reale pro capite, indicatore del potere di acquisto) che ci vede al 49^ posto nel mondo (dati Index Mundi).

Ma come abbiamo fatto a ridurci in questa situazione? A mio avviso ciò è il frutto di più fattori concomitanti, tra i quali: la completa e continuativa mancanza di una strategia industriale di Paese, una inopportuna (o ideologica?) politica fiscale per le imprese (che ha fatto spostare all’estero le poche grandi aziende italiane rimaste e ha tenuto lontani i possibili insediamenti di multinazionali tecnologiche), imprenditori incapaci di capire le evoluzioni in atto, mancanza di politiche per la scuola e per lo sviluppo delle competenze.

A riguardo delle competenze, ad esempio, non penso che siamo completamente consapevoli della situazione imbarazzante in cui ci troviamo. Nella forza lavoro tra i 25 e 34 anni (quella che ci servirebbe ora per attivare una ripresa competitiva) abbiamo la minore percentuale di laureati in Europa (il 29%, seguiti solo dalla Romania, che però ha più laureati tecnici). La Francia e la Spagna hanno il 45% e l’Irlanda il 58% (si tratta degli ex pastori di 30 anni fa, cioè di quando è iniziato il nostro declino e il loro sorprendente sviluppo). Ma esiste un substrato culturale molto peggiore: l’Italia si trova attualmente nella triste situazione di essere (secondo i dati Ocse) quart’ultima al mondo in analfabetismo prosaico (cioè capacità di capire i testi) e, ancora peggio, ultima al mondo in analfabetismo funzionale (capacità di capire il reale significato di quanto si legge, ad esempio l’interpretazione dei dati).

Questa situazione, insieme ai dati di Pil pro-capite, può anche spiegare il perché i salari medi italiani si siano ridotti del 2.9% dal 1990 al 2020, mentre in tutti gli altri Paesi europei sono aumentati notevolmente. Anche nei Paesi già più ricchi e a minor tasso di sviluppo, come Francia e Germania, sono aumentati di più del 30% (dati Ocse). Nella già citata Irlanda i salari medi sono ora superiori del 41% rispetto ai nostri.

I salari minimi e il tasso di povertà sono ovviamente conseguenza del basso livello del Pil reale pro capite che è anche una conseguenza del basso livello di competenze). Lasciando al governo attuale e a quello prossimo il tema del superamento a breve delle urgenze legate alla crisi energetica e alle conseguenze delle sanzioni, mi concentro sui nostri problemi strutturali e sul come andrebbero a mio avviso strategicamente affrontati.

Va tenuto comunque conto, a tal riguardo, che le conseguenze della pandemia Covid e del nuovo scenario politico globale hanno accelerato il peso dei fattori che stavano già penalizzando il nostro sistema economico. L’accelerazione della diffusione dell’e-commerce e dello smart working, determinati dalla situazione pandemica, ci ha infatti paracadutati in un nuovo scenario di business in cui la capacità di operare in modo digitalizzato è fondamentale. Purtroppo in tale campo l’Italia era già in ritardo da prima della pandemia. Anche la recente impennata del costo dell’energia e del gas sta avendo un grosso impatto sul nostro sistema produttivo.

Tale costo è destinato a ridursi, ma difficilmente tonerà ai livelli pre-pandemia, perché India e Cina continueranno ad aumentare le loro richieste di gas. Si noti comunque che l’aumento del costo del gas era già in corso prima della guerra in Ucraina, e che comunque storicamente e strutturalmente in Italia era già più alto da tempo. Ciò penalizza i Paesi con il più alto contributo al Pil nazionale da parte del settore manifatturiero, quali Italia e Germania.

La Germania è però messa un pò meglio di noi, perché la sua produzione ha valori unitari decisamente superiori ai nostri (si pensi alle auto) e perché spesso noi siamo semplicemente suoi fornitori con filiere a basso valore aggiunto e anche destinate a ridursi nei volumi (si pensi alla filiera dell’automotive, dove con lo sviluppo dell’auto elettrica si ridurrà notevolmente il contributo dei fornitori italiani). Si aggiunga che il grosso dell’aumento del Pil degli altri Paesi negli ultimi due decenni è stato determinato dallo sviluppo del business dei Servizi, dalla Digitalizzazione e dalla “Servitizzazione” dei prodotti, cioè da nuovi modelli di business in cui i prodotti vengono venduti attraverso la loro fruizione e non attraverso il loro acquisto (car sharing, gestione antifurto in service, software pagato in “pay per use”, aerei pagati in “pay as you fly”,ecc..).

In questo nuovo business le nostre aziende, anche perché troppo piccole, sono entrate molto poco, rimanendo solo come fornitrici di prodotti e quindi disintermediati dal mercato finale. Drammatico a tal riguardo per le aziende commerciali e il retail (e per gli stessi produttori-fornitori), l’affermarsi di aziende “e-commerce/logistiche“ che hanno ora in mano sia i clienti che i fornitori.

E’ chiaro quindi che i paradigmi che rendevano vincente il nostro ecosistema economico fino alla fine degli anni ’80 non sono più adeguati per le sfide che ci aspettano. In realtà non lo sono più dagli anni ’90, ed è questo il motivo per cui abbiamo poi perso il 30% di Pil reale rispetto a Francia e Germania. Queste ultime, come buona parte dei Paesi dell’Europa occidentale, si sono permesse il lusso di realizzare tali performance con un costo orario del lavoro superiore del 28% rispetto al nostro (più di 37 euro contro i nostri 29).

A questo riguardo mi chiedo come mai i nostri imprenditori si sono spesso lamentati del nostro costo del lavoro. Forse perche’ si ostinano a voler produrre prodotti che ora possono produrre Paesi a più basso costo del lavoro? E’ chiaro che se quei prodotti (persino le auto) possono essere realizzati anche in Paesi europei (senza andare lontano) con un costo orario anche inferiore ai 10 euro l’ora (Est europeo), non possiamo farcela.

Le poche eccezioni di produzioni ad alto valore riconosciuto dal mercato (come la Ferrari e quanto è rimasto di proprietà italiana nel fashion e nella nautica), non fanno Pil e occupazione sufficienti.

Il fatto è che dagli anni ’90 non ci siamo voluti accorgere dei cambiamenti dei modelli di business in atto negli altri Paesi (modelli in cui si riesce a essere competitivi con costi orari di più di 37 euro). Non abbiamo capito che era già ora di pensare a come aumentare il valore del prodotto/servizio proposto, invece di ostinarsi nel cercare di aumentare l’efficienza nel produrre l’esistente, magari semplicemente migliorandolo un po’, ma senza innovarlo sufficientemente. 

Ricordo con un po’ di frustrazione quando negli anni ’90 (in cui avevo un ruolo in Confindustria) partecipavo a workshop per circa 1200 imprenditori, segnalando con dati e altre evidenze che il mondo del business si stava innovando e “servitizzando” velocemente. Ricordo ancora le loro espressioni che dimostravano che di fatto non capivano di cosa stessi parlando e ricordo anche che continuavano a lamentarsi del fatto che il governo non riduceva il cuneo fiscale per ridurre i loro costi produttivi.

Mi chiedevo e mi chiedo: “Per competere con chi”? Con l’Indonesia e gli altri Paesi che ora fanno gli stessi nostri prodotti? Le poche eccellenze italiane che troviamo nel nuovo scenario e che ci vengono proposte dai media sono proprio le eccezioni che confermano una diversa normalità. Purtroppo ci danno però la sensazione di essere un paese che sa fare innovazione in volumi sufficienti ad aumentare il Pil come negli altri paesi, mentre non è vero.

Guardando i dati sembra che non sappiamo neanche sfruttare bene il brand “made in Italy”. La sappiamo fare solo in piccole nicchie e credendo ancora che “piccolo è bello”. Così non si fa Pil, non si fa occupazione, non si sviluppano sufficienti competenze di ecosistema. Abbiamo persone che saprebbero farlo, ma sono poche rispetto agli altri Paesi (si pensi ai dati sui laureati tecnici) e queste preferiscono andarsene all’estero, dove come minimo, persino in Irlanda, possono avere un salario maggiore di almeno il 40%. Come mai l’Irlanda può permettersi tali salari? Molto semplice: l’Irlanda, già nel 2019, aveva un Pil reale pro capite 2,2 volte superiore al nostro (60.200 euro contro i nostri 26.900). 

La conclusione, da qualunque parte la si guardi, è che le principali cause della nostra attuale delicata situazione sono il bassissimo Pil reale pro-capite del paese  e l’ incapacità di aumentarlo.

Tale aumento si può realizzare solamente cambiando i paradigmi (i modelli di business) del sistema economico italiano e ricreando le competenze necessarie per farlo. Un piano serio è quello che può generare cambiamenti significativi nei trend di tale indicatore, cercando nel frattempo di farci sopravvivere al meglio.

Un Piano di ripresa delle nostre performance economiche (con l’aiuto del Pnrr) dovrebbe quindi partire da una chiara diagnosi delle cause del loro degrado, individuando chiare strategie per lo sviluppo nel medio-lungo termine.

Non può bastare mantenere l’attuale distanza dagli altri paesi concorrenti, altrimenti rimaniamo nel gruppo di serie B (ci siamo già, anche se non vogliamo ammetterlo). Dobbiamo trovare il modo di tornare in serie A.

Abbiamo ora risorse che possiamo usare allo scopo, ma non sono infinite né ripetibili (e innanzi tutto sono quasi tutte a debito, quindi da restituire). Occorre saper destinare le risorse disponibili alle priorità, evitando di disperderle in mille rivoli non sinergici tra loro e tenendo un giusto mix tra ciò che serve per risolvere problemi, ciò che serve per migliorare il Pil dell’anno e ciò che serve per invertire il trend nei prossimi anni.

Il vero problema non è fare la lista di tutte le cose che si potrebbero fare, ma quello di saper individuare le priorità da usare come driver per trainare il resto. Tra le priorità di breve termine occorrerà assolutamente prevedere una strategia di potenziamento del business Turismo (abbiamo vantaggi competitivi naturali e da solo rappresenta una grande parte del nostro Pil). Non è possibile che l’Italia fosse la prima meta mondiale negli anni ’70 mentre ora siamo solo quinti, con Francia e Spagna ai primi due posti.

Per il medio-lungo termine occorre invece attivare migliori catene del valore nel nostro ecosistema (con strategie di supporto mirate), riattrarre le grandi aziende italiane emigrate all’estero e le multinazionali high tech.

Queste ultime aiuteranno anche a riuscire a usare in patria le competenze che invece ora fuggono all’estero. Fondamentale per il medio-lungo termine anche ripotenziare drasticamente la nostra capacità di creare volumi di competenze a livello dei Paesi concorrenti (attraverso la scuola e con percorsi formativi integrati con le aziende).

Ci auguriamo che i prossimi governi possano avere una durata temporale sufficiente per poter gestire coerentemente i relativi piani (il Pnrr dovrebbe anche aiutare per garantire le coerenze, pena il decadimento delle possibilità di finanziamento).

*Giorgio Merli, autore di numerosi libri e articoli su Strategie e Management, consulente di multinazionali e Governi, docente in diverse Università in Italia e all’estero. Già Country Leader di Pwcc e di Ibm Business Consulting Services

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