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Work life balance e smart working

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Francesco Maria Spanò

Francesco Maria Spanò

A tre anni da quando si è iniziato ad applicare in modo imprevisto e massiccio il lavoro agile, necessario per non fermare le attività produttive durante la pandemia, è arrivato finalmente il momento di fare un bilancio. Da marzo 2020, infatti, questo istituto ha avuto una caotica applicazione, in molti casi travestendo da smart working forme ibride di telelavoro.

Ora, passata la tempesta, dobbiamo chiederci a che punto siamo. Da recenti sondaggi è emerso che lo smart working, utilizzato da ben 6,6 milioni di lavoratori in Italia a inizio pandemia, coinvolge attualmente solo 2 milioni di persone. Con questa tendenza in discesa ci avvicineremo, a breve, ai 600 mila smart worker del 2019. Ma quali sono i motivi legati a questa diminutio?

Le cause sono diverse e non tutte ancora definite nel loro peso, come: il fattore economico, il trasporto, l’organizzazione del tempo, l’assenza di un sistema legislativo strutturato. Inoltre persiste una resistenza nella cultura organizzativa delle aziende private e della Pubblica amministrazione, che privilegia il controllo in presenza dei dipendenti e percepisce lo smart working ancora come soluzione emergenziale. La maggiore criticità che incontrano i manager alla diffusione dello smart working consiste nella gestione di lavoratori che non hanno acceso al lavoro da remoto: sono infatti le rivendicazioni degli esclusi a creare più timori.

Lo smart working è considerato ancora troppo rischioso, in grado di minare quello che viene considerato il giusto livello di engagement aziendale, e ciò porta a non voler abbandonare la strada vecchia per quella nuova, volendo fare idealmente eco a un famoso proverbio. Riguardo la quota di imprese interessate, occorre distinguere tra aziende di grandi e piccole dimensioni. Se da un lato la maggior parte delle piccole aziende ha finito per non far lavorare i propri dipendenti in smart working, dall’altro le grandi aziende hanno per lo più privilegiato soluzioni ‘intermedie’ concedendo uno o due giorni di lavoro da remoto e richiedendo, per i restanti giorni della settimana, la presenza nella sede aziendale. Quanto allo smart working inteso in senso esclusivo, quello, per intenderci, sperimentato durante il lockdown, senza alcun limite spaziotemporale, è attualmente utilizzato dalle aziende dei seguenti settori: assicurativo-finanziario, digitale e nuove tecnologie, formazione a distanza. Particolare successo hanno quelle figure professionali di difficile reperimento, così rare che le aziende sono disposte ad averle in sede solo per pochi giorni al mese, lasciando loro ampi spazi organizzativi. Dopo una tale rivoluzione, che ha fatto subito intendere come l’applicazione di tale istituto fosse in grado di apportare cambiamenti radicali nella vita di tutti, anche oltre le mura lavorative, è emblematico notare come le aziende italiane e la Pubblica amministrazione abbiano optato per ritornare a uno status quo ante, cercando di ristabilire il più possibile ‘l’ancien règime’ costituito dai classici canoni spaziotemporali del lavoro.

A ogni modo, è importante segnalare come questa tendenza regressiva sia destinata a non durare. Infatti, secondo un recente studio, il 60% degli italiani cambierebbe lavoro pur di non rinunciare allo smart working. L’esigenza di trovare un giusto work-life balance è ora il driver della maggior parte dei lavoratori.

La verità è che sotto le ceneri di questa regressione apparente arde un rogo destinato a riaccendersi.

 

 

 

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