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Pochi laureati, e molti scappano via

Natale D'Amico

Natale D'Amico

Non necessariamente un ‘talento’ è munito di laurea: basti pensare ai molti eroi della nuova economia digitale, che hanno lasciato l’università prima di conseguire il titolo di studio. E certamente non tutti i laureati sono ‘talenti’: ciascuno di noi è in grado di vedere innumerevoli esempi accanto a sé

Tuttavia, in mancanza di meglio, la quantità di laureati è un discreto indicatore della ‘dotazione di capitale umano’ di un’economia. Purtroppo l’Italia si piazza molto male. Secondo l’ultimo rapporto dell’OCSE, nella media dei 42 Paesi considerati quasi la metà dei giovani tra 24 e 35 anni è dotata di un titolo di studio ‘terziario’; in Italia meno del 30%, il che ci classifica al sest’ultimo posto. Da noi il vantaggio economico conseguente alla laurea è minore che altrove: un laureato italiano ottiene un reddito da lavoro superiore del 37% rispetto a un diplomato; nella media dell’OCSE la differenza è il 55% (negli Usa il 70%, in Germania il 60, in Francia il 50).

Ciò contribuisce a spiegare perché molti dei giovani laureati italiani cercano occupazione all’estero. Secondo l’Istat negli ultimi dieci anni sono espatriati oltre 120.000 laureati tra i 25 e i 34 anni; ne sono rientrati 41.000, con un saldo negativo di 79.000. Un numero che cresce nel tempo. Ormai quasi la metà dei giovani italiani che espatriano sono laureati.

Anche il Nord e il Centro Italia vedono espatriare un numero consistente dei loro giovani laureati, ma accolgono molti che si spostano dal Mezzogiorno. Per cui il saldo del Nord è positivo, quello del Centro nullo, quello del Mezzogiorno fortemente negativo: in dieci anni ha perso 157.000 giovani laureati. Pure questo è un numero che tende ad aumentare.

Di per sé il fatto che i giovani dotati di qualificazioni elevate si muovano alla ricerca dell’occupazione migliore, dentro e fuori il territorio nazionale, non è un male. Quel che è male è che il saldo totale tra entrate e uscite sia stabilmente negativo, e tenda ad accrescersi nel tempo.

Di tanto in tanto adottiamo agevolazioni specifiche e transitorie per favorire il rientro di questo o quel tipo di ‘talenti’. Con effetti distorsivi che finiscono per il premiare i fortunati o i furbi. Sarebbe invece il caso di ragionare su interventi più generali. L’occasione della riforma fiscale annunciata dal Governo non dovrebbe essere sprecata.

Affinché i singoli e le loro famiglie accrescano l’investimento in istruzione è necessario che il rendimento di questo investimento si accresca. È ovvio che i laureati aggiuntivi che possiamo sperare di produrre dovranno trovare occupazione nel lavoro dipendente (le professioni liberali sono in Italia di già fin troppo affollate, come risulta evidente nel confronto internazionale). Ma il reddito che i nuovi laureati possono trarre dal loro investimento nello studio viene drasticamente falcidiato dalla progressività estrema che caratterizza il nostro prelievo fiscale.

Il 18% dei contribuenti, quelli che dichiarano più di 35.000 euro di reddito lordo, in larga misura lavoratori dipendenti, pagano il 57% dell’Irpef totale; restringendo lo sguardo a quel 4% dei contribuenti che dichiarano più di 70.000 euro, essi da soli pagano il 29% del totale.

Ecco dove agire se si vuole accrescere il volume di laureati, evitare che in tanti espatrino, magari attrarne un po’ dall’estero. Occorre evitare che una progressività del prelievo eccessiva scoraggi l’investimento in educazione e spinga i laureati ad andare altrove.

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