Fabrizio Greco (Assobiotec): “Le crisi hanno due facce”

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Un ingegnere con in tasca una tesi sull’intelligenza artificiale e la passione per il biotech. Fabrizio Greco, presidente di Assobiotec – l’associazione di Federchimica che riunisce le imprese italiane del settore – per il triennio 2022-2025, guarda alla strategia italiana per il settore con ottimismo, convinto che dalle tecnologie potranno arrivare soluzioni innovative per rispondere alle grandi questioni della nostra epoca.

Iniziamo a inquadrare il settore: quali sono i numeri delle biotecnologie in Italia e come sono distribuite le aziende sul territorio?

Parliamo di 800 imprese, 13.700 addetti, oltre 13,6 mld di fatturato nel 2022 e un settore concentrato sostanzialmente in quattro Regioni: Lombardia, Lazio, Toscana e Piemonte. Il comparto ha vissuto una forte crescita del fatturato nel 2021 e si attende un consolidamento del dato per il 2022. All’interno del comparto le biotecnologie per la salute valgono il 74% del totale, ma negli ultimi due anni sono soprattutto le applicazioni per la bioeconomia – industria e agricoltura – a crescere a un ritmo del 30%, arrivando a rappresentare oltre un quarto del fatturato del biotech italiano, con una quota per il 2021 pari a più del 25% del totale e in ulteriore crescita nel 2022. Parliamo di un settore in fase di sviluppo, dunque, ma con un numero di aziende inferiore a quello dei principali Paesi europei. Anche se abbiamo spazio per recuperare.

Quella del biotech per la salute è una pipeline interessante, anche alla luce degli studi su terapie avanzate, cellulari e mRna: quali saranno i filoni più interessanti della ricerca biotecnologica?

Quelli dove c’è un bisogno di salute insoddisfatto: dunque l’ambito oncologico, ma anche le malattie autoimmuni e le neuroscienze. Già oggi quasi il 50% delle terapie in sviluppo nel mondo è biotech e ci aspettiamo che questo dato continui a crescere.

Le stime indicano uno sviluppo notevole a livello globale per il settore nei prossimi anni, ce ne può parlare?

Un’analisi di EY stima che il biotech nelle scienze della vita triplicherà nell’arco di poco più di 5 anni, passando a livello globale da 223 mld di euro nel 2020 a 731 nel 2028, e questo sulla base delle terapie che potranno essere disponibili nei prossimi anni. Ma c’è una crescita importante anche di agricoltura, industria e ambiente, perché ci stiamo muovendo a livello internazionale verso una maggior attenzione alla sostenibilità.

Covid-19, materie prime, conflitti, gas: quali sono le sfide geopolitiche che vi preoccupano di più?

Le crisi attuali hanno due facce: impattano sulle società con maggiori costi e mancanza di materie prime. Ma nel caso particolare delle biotecnologie io vedo anche una potenzialità di sviluppo legata alle dinamiche geopolitiche in atto. Covid-19 ce lo ha mostrato: i Paesi, e nel nostro caso anche l’Europa, avranno bisogno di essere sempre più autosufficienti in determinate aree. Questo porterà a uno sviluppo di strategie per soluzioni ad hoc. Così si apriranno maggiori opportunità per le imprese del settore. D’altra parte un po’ tutti i Paesi si stanno muovendo sulle biotecnologie creando i propri campioni, per evitare di dipendere dall’estero.

In un recente incontro organizzato da Assobiotec, il ministro Urso ha annunciato che il governo è al lavoro per una strategia nazionale sulle biotecnologie: è la strada giusta per consentire alle imprese biotech di crescere?

Assolutamente sì: pensiamo sia la strada migliore, ma anche l’unica. Per essere competitivi il percorso è complesso: bisogna agire su formazione, ricerca, investimenti, sviluppo, regole di accesso al mercato. Occorre una regia per verificare che gli ostacoli sulla strada vengano rimossi in modo organico.

Abbiamo visto parecchio movimento nel pharma e nel biotech: la stagione delle acquisizioni e delle partnership è ancora in corso?

Io la vedo così. Ormai le grandi aziende non contano più solo sullo sviluppo interno, ma sempre di più si cerca di individuare imprese più piccole che si sono dedicate ad aree specifiche e, nel momento in cui hanno bisogno di risorse per sviluppare ulteriormente le loro terapie, necessitano di qualche partner. Vedo sempre di più la creazione di startup che sviluppino determinate idee e soluzioni, per poi trovare accordi con imprese più grandi.

C’è una crescente attenzione ai temi ambientali, quali sono le potenzialità delle biotecnologie?

Oggi finalmente si parla di One Health, di economia circolare, di clima: ben 9 dei 17 Sustainable Development Goals dell’Organizzazione mondiale della sanità possono trovare una soluzione nelle biotecnologie.

Parliamo di lavoro e competenze: in Italia le imprese biotech cercano dei profili particolari?

Iniziamo col dire che le idee arrivano dai giovani: quindi se vogliamo essere competitivi in questo settore, occorrono tanti giovani competenti. L’anno passato abbiamo fatto una ricerca insieme a società di consulenza e fra i profili più interessanti voglio ricordare ricercatori bioinformatici, ingegneri ed esperti in machine learning. Ma, a livello personale, penso che tutti i laureati in materie Stem siano potenziali candidati in questo settore che più di altri sperimenterà una forte evoluzione nel prossimo decennio, sotto la spinta di trend come l’innovazione tecnologica, i cambiamenti climatici e ambientali, oltre alla trasformazione dei modelli lavorativi. Qualsiasi sia il settore, avremo a che fare con le biotecnologie.

Perché un giovane dovrebbe puntare a una carriera nel settore?

Questo è un settore che abbraccia tante aree diverse, ci sono tanti spazi affini alle passioni dei giovani. Io sono un ingegnere, ma ognuno può cercare dentro di sé ciò che lo interessa di più e mettersi alla prova. Il panorama di opportunità nelle biotecnologie è talmente ampio da consentire di trovare percorsi che siano vicini alle proprie attitudini. In più è un settore che crescerà tanto. Dunque è probabile che in questo caso la passione possa diventare una professione.

Lei è un ingegnere: se dovesse tornare indietro, che scelta farebbe dopo la maturità?

Non cambierei idea, proprio per la base scientifica e metodologica che mi ha dato Ingegneria. Mi sono laureato con una tesi sull’intelligenza artificiale nell’88, all’Università di Genova, quando ancora non si immaginava quello che sarebbe diventato oggi l’AI. Ma mi porto dietro da quegli anni un modo di analizzare i problemi e cercare soluzioni che si può applicare a tanti ambiti diversi. Ecco perché credo che ancora oggi sia fondamentale una formazione che dia ai nostri giovani gli strumenti tecnici di base, da utilizzare poi nella professione di domani.

 

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