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Il Deficit e la Costituzione

Così il Governo ha deciso. Il prossimo anno, e i due a venire, il deficit pubblico sarà portato al 2,4 per cento del prodotto. La generalità degli economisti ritiene che sia un deficit troppo grande. Che così facendo il debito ricomincerà ad aumentare, non solo in valore assoluto, ma anche in rapporto al prodotto, portandosi su un sentiero alla lunga insostenibile. Se giungeranno alla medesima conclusione coloro che investono i propri risparmi, o i risparmi che sono stati loro affidati dai clienti, nei titoli del nostro debito, la situazione può farsi esplosiva.

Ben presto l’Italia si verrebbe a trovare nella condizione della Grecia di Tsipras: o accettare il salvataggio, e le relative condizioni, delle istituzioni finanziarie europee e internazionali, o abbandonare la moneta unica. Sempre che quelle istituzioni abbiamo davvero voglia di intervenire per salvare l’Italia. Quali poi sarebbero gli effetti tragici dell’abbandono della moneta unica, è descritto nel bel libro curato da Carlo Stagnaro per l’Istituto Bruno Leoni (Cosa succede se usciamo dall’euro; disclaimer: chi scrive vi ha collaborato).

Ma la generalità delle persone “normali” scorre velocemente sui giornali i titoli degli editoriali degli economisti. Ciascuno si concentra invece sulle ipotetiche misure che verrebbero finanziate con il deficit aggiuntivo. Cercando di comprendere se il reddito di cittadinanza gli toccherà, se rientra nei parametri della pace fiscale, se ha o no i requisiti per accedere alla pensione anticipata previsti dalla nuova “quota 100”.

Non sarà certo un liberale a scandalizzarsi perché ciascuno cura il self interest. Un liberale potrà però sorprendersi di quanto le persone sopravvalutino ciò che può loro venire di buono dall’azione di governo, e sottovalutino invece clamorosamente quanto gliene può venire di male.

Se ottengo di andare in pensione prima, potrò esser contento, e solo lontanamente percepire il danno che subirà chi dovra pagare più tasse o più contributi per pagarmi l’anticipo. Ma davvero quel vantaggio vale il rischio dei disastri paventati da tutti gli esperti? Se accordarmi la pensione anticipata aumenta anche solo marginalmente il rischio che quella pensione finirà per essermi pagata in nuove lire destinate a svalutarsi, davvero voglio fare quella scommessa? Non sto clamorosamente sottovalutando il danno che un’azione di governo men che prudente può arrecarmi? E non dovrei dunque pretendere da chi ho eletto che proceda con i piedi di piombo, che spenda solo dopo aver incassato, che non faccia conto sul debito ma sul risparmio, che non venda la gallina di domani e insieme l’uovo di oggi?

Forse la risposta è nella Costituzione repubblicana. Che fin dalle sue origini, ancor prima della riforma del 2012, affermava il principio dell’equilibrio del bilancio pubblico, e chiedeva ai governanti di ispirare la propria azione in campo finanziario a ragionevoli regole di prudenza. Se c’è un momento giusto per invocare il ritorno alla lettera e allo spirito della nostra Legge fondamentale, quel momento è ora.

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