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As Roma e Totti, un caso di scuola

C’è una premessa da fare, doverosa. Per scrivere della As Roma e di Francesco Totti, oggi, il giornalista deve provare a mettere da parte il tifoso. O, quanto meno, a tenere separati i due status. Non è detto che ci riesca ma il tentativo sarà portato a termine con enorme sforzo e assoluta buona fede.

Per una testata che si occupa prevalentemente di impresa e di business, la gestione della società di calcio guidata da James Pallotta è diventata un caso di scuola. In pochi mesi, ha cambiato la guida sportiva e quella tecnica, non ha centrato i suoi obietti annuali, ha scelto di non proseguire il rapporto con il suo capitano, Daniele De Rossi, ha scelto di perdere il suo dirigente più rappresentativo, che è stato il giocatore più forte della sua storia, Francesco Totti. Una serie di passaggi consecutivi che evidentemente sono l’espressione di una strategia. Evidentemente, si ritiene che il futuro possa essere migliore cancellando il passato. Questa non è una rivoluzione e non è neanche una rifondazione, come spesso avviene in casi simili. La Roma ha scelto di rinunciare alla propria identità, di tirare una linea e ‘normalizzarsi’ fino a rendersi una società qualunque, una squadra di calcio qualunque. Con la testa divisa tra Boston (Pallotta) e Londra (il consulente Franco Baldini), un allenatore portoghese (Paulo Fonseca), forse un direttore sportivo in arrivo da Torino (Gianluca Petrachi). E via, in una sola volta, ogni legame con i suoi ultimi 20 anni di storia.

Si potrebbe pensare a una scelta fatta sugli uomini. Frutto di valutazioni impopolari ma fondate su riscontri oggettivi: ovvero, Daniele De Rossi non è più in grado di giocare a un certo livello e Francesco Totti non è un dirigente al quale si possa affidare il potere che chiedeva. Scelte, teoricamente, legittime. C’è però da considerare un altro elemento. L’azienda As Roma, così ha iniziato a definirsi con continuità negli ultimi mesi, è anche una società di calcio. E una società di calcio ha un patrimonio in più da salvaguardare: il legame affettivo, passionale, con il proprio principale cliente, i tifosi. Sono tra l’altro, anche, una importante voce economica: biglietti, abbonamenti, merchandising. Ma sono soprattutto, restando su parametri economici, un asset che non si può dismettere se si vuole continuare a esistere.

Poi, c’è il contesto esterno, fatto di opinione pubblica, di stampa, di quello che viene definito ‘ambiente’. Anche in questo caso, si possono fare delle scelte. Ma si devono fare i conti con un altro parametro importante per le aziende, la reputazione. Su questo fronte, nel caso di scuola As Roma, ci sono tutti gli elementi per descrivere quello che un management, in qualsiasi campo operi, deve evitare nel rapporto tra la propria azienda e il mondo esterno. L’immagine della società esce da queste settimane ridimensionata quantomeno da evidenti errori di gestione delle risorse umane, prima, e di comunicazione, poi. Oggi, la Roma è chiusa in un angolo. E a tirarla fuori potranno essere solo i risultati sportivi, difficili da immaginare in questa fase ma capaci, comunque, qualora arrivassero, di far recuperare credibilità.

Fin qui, ha scritto il giornalista. Tentando di cercare delle motivazioni plausibili a una serie di fatti sportivi, con una evidente ricaduta anche economica. Il tifoso non può e non deve scrivere. Non qui. Ma ripercorre più di trentacinque anni di tifo, quello consapevole, dallo scudetto del 1983 in poi, e si sente nel punto più basso della sua storia romanista.

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