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Le imprese familiari al tempo del Coronavirus

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Quella che chiamiamo oggi “crisi globale” è un ciclo pluridecennale particolarmente accidentato, all’incrocio tra: il crack della finanza del 2008, che ha messo a nudo i limiti del capitalismo così come lo conosciamo, facendo della nostra una crisi di civiltà, prima che economica; la Quarta rivoluzione industriale che ha accelerato digitalmente la discontinuità culturale e generazionale; la pandemia del nuovo coronavirus, che ha generato una discontinuità cognitiva nella nostra capacità di comprendere il contesto e prevederne l’evoluzione.

 

Così siamo scivolati nel nuovo decennio, il terzo del terzo millennio, un battere di ciglia di poco più di 500 settimane che ci attendono, da aggiungere agli oltre 5 milioni di dominio della catena alimentare da parte di homo sapiens. Eppure nella misura in cui il tempo definisce l’evoluzione di una specie e ne perfeziona i meccanismi di sopravvivenza e continuità, la stessa intelligenza che ci ha resi signori della natura, non ha ancora prodotto modelli solidi e solidali che garantiscano resilienza, uguaglianza, equa distribuzione della risorse, sviluppo sostenibile e convivenza socialmente responsabile. Anzi, è bastato un virus – un microscopico aggregato di materiale biologico, che per l’incapacità di trasformare il cibo attraverso il metabolismo o di riprodursi da solo, non sappiamo neanche se catalogare o meno tra gli esseri viventi – a ricordarci la fragilità degli usi e costumi (questo il volgare nome della morale) che regolano la nostra vita economica e sociale.

 

Questo decennio – proprio questo – ci dirà se e come manterremo lo scettro, all’incrocio tra accelerazione digitale, discontinuità cognitiva e disillusione delle narrazioni fallite nell’ultimo secolo. Fascismo e Ordine, Comunismo e Uguaglianza, Finanzcapitalismo e Ricchezza.

 

La competizione si sta spostando su modelli di business chiamati a sostenere non più la mera transazione di prodotti e servizi, ma la ben più differenziale transazione di valore e di fiducia sottostante, nel nome di un equilibrio economico e sociale per tutti gli stakeholder e per l’ecosistema locale e transnazionale nel quale l’impresa è inserita.

 

Con loro – gli stakeholder tutti, interni ed esterni, che nell’impresa mettono speranze, valori e prospettive – l’imprenditore ha contratto un debito morale. A loro deve restituire la stessa fiducia, alla base di tutte le relazioni umane, la cui potenza sta nella capacità di aggregare cuori e intelligenze intorno ad un credo, una vision, una cultura aziendale, una narrazione. Da loro può chiamare a raccolta le intelligenze e beneficiare di un contributo unico all’intento strategico dell’impresa, lontano da copioni autoreferenziali e di esercizio piramidale del potere.

 

Le crisi vanno e vengono; ne abbiamo passate e ne passeremo ancora. Ciò che fa la differenza tra chi le supera e chi no, sono la velocità e la profondità nel comprendere la distribuzione del rischio imprenditoriale e la sua possibile riqualificazione. Dobbiamo aprirci a processi cognitivi e formativi diversi da quelli a cui siamo abituati, se vogliamo disegnare piani e strategie per la continuità. La partita da giocare non è tanto sugli aspetti tecnici, quanto sulle abilità cognitive di comprensione dei fenomeni e di formulazione di modelli di business e organizzativi, che catturino le opportunità del cambiamento e garantiscano all’impresa la resilienza necessaria per abbracciare la nuova epoca.

 

Se a questo aggiungiamo che il 50% degli imprenditori familiari al comando ha più di 60 anni e la metà di questi più di 70, l’impresa familiare italiana approfitti del momentum per pianificare quella continuità che spesso allontaniamo con un gesto della mano, un po’ per scaramanzia, un po’ perché ci sentiamo invincibili, un po’ per non affrontare scelte di successione che non vogliamo affrontare.

 

Così continuità diventa spesso sinonimo di passaggio generazionale tout-court, precludendoci le numerose varianti che l’apertura di management, governance e capitale hanno da offrirci, fino all’estremo opposto del disimpegno. E disconsiderando (volutamente?) le preliminari e fondamentali verifiche su motivazione, inclinazione e preparazione delle nuove leve. Col risultato di consegnare all’attuale crisi (che dal greco krisis significa proprio «scelta») un processo, quello del passaggio generazionale delel imprese familiari, talmente fallace da uccidere 85 tentativi su 100 di arrivare alla terza generazione.

 

Questo decennio nel suo avvio così imprevedibile, chiama dunque tutti noi imprenditori familiari – fabbri e custodi dei saperi tecnici ed economici che, per inciso, producono l’80% del PIL globale ed impiegano due terzi della forza lavoro fisica e mentale dell’umanità – a ri-fondare le nostre imprese su modelli partecipativi e progettando la continuità.

 

Queste sono le due progettualità del family business e delle imprese familiari di cui la pandemia può aumentare la probabilità di successo nella misura in cui in emergenza siamo molto più reattivi ed aperti a cambiamenti, che in condizioni di prevedibilità di contesto tendiamo a rimandare.

 

Questo decennio, in conclusione, ci chiama tutti a mettere a sistema le nostre intelligenze, non solo nella dimensione professionale e personale che già dominiamo, ma in quella zona grigia nella quale dovremo per forza scrivere una nuova narrazione in cui riconoscerci protagonisti fieri e orgogliosi di abitare non tanto questo mondo, quanto la nostra dimensione umana e rendendo dignitoso quel futuro che, ricordiamocelo, abbiamo preso in prestito dai nostri figli.

 

Alessandro Scaglione è esperto di imprese familiari, dove ha lavorato per più di vent’anni al fianco di diversi imprenditori. Ingegnere gestionale e master cum laude in general management al Politecnico di Milano, si occupa dal 2018 di diffondere attraverso Consiliator un modello distintivo di cultura imprenditoriale, formazione e in-formazione dedicati al Family business. È autore del libro ‘R-Innovare il family business’ (Guerini, 2019).

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