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Connesso, quindi sono: siamo fonte di dati

Il messaggio che arriva oggi è forte e chiaro: l’aumento esponenziale delle sorgenti informative spinge le realtà produttive e i singoli individui a vedere negli analytics non solo un asset, un plus operativo, ma anche un modello ormai centrale per la crescita, e questo in tutti settori produttivi e dei servizi. Quello dell’Italia è solo un caso ancora marginale nel contesto della globalizzazione.

 

Se pensate a come impiagate il tempo, nell’arco di 24 ore per 365 giorni l’anno, ecco che già ci sono algoritmi che, analizzando ciò che abbiamo fatto e vagliando quello che potremo fare, ci indirizzano in ogni scelta della nostra vita. Abbastanza scioccante, in effetti. Ma è la realtà: ormai la viviamo quasi senza accorgercene. E tutto questo da cosa è reso possibile? Dalle tracce digitali che lasciamo ogni singolo istante sul web. Quale città ci piacerebbe visitare, quali scarpe vanno di moda quest’anno, su quale malattia ci siamo informati, quale auto abbiamo analizzato, quale ristorante abbiamo prenotato, quante ore abbiamo dormito e quanti passi abbiamo fatto in un giorno… Matematici, ingegneri analisti scrivono algoritmi che intrecciano questa mole di dati e ci forniscono spunti, cercando di intercettare, indirizzare e condizionare ogni nostro processo di scelta.

 

Quali sono i fatti? Qualche esempio: oggi c’è in media più potere computazionale in un’automobile di quanto ne disponesse la Nasa nel 1969 per inviare gli astronauti sulla Luna; nel 2015 i dispositivi connessi a internet erano 25 miliardi, oggi sono 50 miliardi; assistiamo a una crescita esponenziale dell’Internet of Things, tanto che la comunicazione tra esseri umani già rappresenta una piccola parte di un fenomeno che avviene in misura crescente tra soggetti non umani; negli ultimi 5 anni sono stati prodotti più dati di quanti ne abbia accumulati l’umanità in tutta la sua storia; gli uomini vivono sempre più reciprocamente connessi in un unico ambiente fatto di dati condivisi con altre fonti di informazioni, umani o artificiali che siano non fa differenza, purché vi sia un’intelligenza in grado di processare quei dati. Pensate a “Siri”, al fatto che digitiamo un numero semplicemente pronunciandolo: Siri “ci capisce”. Ecco, quest’esperienza ormai banale testimonia che noi e il telefono siamo fatti della stessa pasta: informazioni.

 

E siamo solo all’inizio. Viviamo in un epoca di cambiamento esponenziale, dove in poco tempo le abitudini sono state completamente stravolte diventando “normali”. In due mesi, e dico due mesi, è diventato normale essere connessi 24h/7, è diventato normale fare la spesa on line, è diventato normale fare un lavoro che 2 anni fa non esisteva e farlo su Zoom (che oggi capitalizza quanto le prime 7 compagnie aeree americane). E’ normale essere a scuola ma stando a casa, è normale organizzare aperitivi su Houseparty. Tante cose sono oggi normali, ma se ci guardiamo indietro erano del tutto imprevedibili anche solo pochi giorni fa. E questo indipendentemente dalla nostra età, che non è più un fattore tale da creare differenze nei comportamenti.

 

Il cambiamento alle porte è enorme e la pandemia non ha fatto altro che accelerarlo.

 

E questo in tutti i settori: dalle case automobilistiche, dove si sta passando da una predominanza di ingegneri meccanici a ingegneri elettronici ed esperti di software, fino alle assicurazioni (che conosco bene) dove le nuove competenze dovranno afferire alla sfera dell’analisi dei dati, della costruzione di algoritmi predittivi, ad un nuovo modo di comunicare in logica social, con un’attitudine empatica che permetta di comprendere dove, quando e come vuole essere protetto il cliente. Questo contesto fa sorgere un feroce contrasto: da un lato c’è la necessità di innovare, provare e testare, di imparare sbagliando, dall’altro l’atavica avversione all’errore che esiste e resiste nella cultura industriale Italiana.

 

Gli anglosassoni hanno reinterpretato la parola FAIL (fallire) in First Attempt In Learning: in questa semplice reinterpretazione di una parola si nasconde un cambiamento culturale di enorme entità. Solo le aziende che sapranno re-interpretare loro stesse, che sapranno rischiare, che sapranno sviluppare una cultura imprenditoriale e quindi si reinventeranno potranno sopravvivere. La differenza rispetto al passato è che la sopravvivenza si gioca nei prossimi 2-3 anni .

 

Un mondo pervaso dall’IoT permetterà a queste e ad altre piattaforme di sapere molto di più su tutti noi e non dovremo nemmeno più agire consapevolmente per fornire dati; siamo ormai diventati per le aziende “data source”: la telecamera del nostro frigorifero smart, vedendo che stiamo finendo il nostro yogurt preferito, può automaticamente verificare, tramite un portale di acquisti online, dove può essere più conveniente effettuare il riacquisto e prevederne una consegna in un intervallo di tempo determinato a casa nostra o dove vorremo, inviando una notifica e chiedendoci se desideriamo o meno effettuarne l’acquisto. È un esempio di efficientamento, e anche di risparmio, per una persona che ha difficoltà nel fare la spesa o che semplicemente vuole impegnare diversamente il suo tempo. Un’operazione semplice di questo tipo fornisce informazioni aggregate a più piattaforme, tutte in grado poi di sfruttare a livello commerciale, o statistico, i dati relativi ai nostri consumi. Queste informazioni ad esempio possono essere associate anche alla misurazione di un sano e corretto stile di vita per determinare se, all’interno della nostra casa, si fa un uso eccessivo di alcolici rispetto al numero di persone che occupano l’abitazione, per informare la nostra assicurazione su potenziali rischi per la salute.

 

E poi è in rampa di lancio il 5G, un vero e proprio salto quantico. Le tecnologie abilitanti e i prodotti/servizi derivati da queste tecnologie permetteranno ad un maggior numero di cittadini di essere connessi, e aumenterà in modo esponenziale il numero di dispositivi che ciascun cittadino vorrà avere connessi tra loro: telefono, tablet, wellness monitor, frigorifero e altri elettrodomestici, e-book, sistema per il controllo domotico, robot di casa, console di intrattenimento (il vecchio televisore) e la nuova auto self driving.

 

Cartesio (1596-1650): “Penso, per cui sono” (“cogito ergo sum”);

Umanisti (1800): “Partecipo, per cui sono”;

Il nostro tempo : “Sono connesso, per cui sono”;

Lo scenario aperto dalla gestione dei dati, da noi come “data source” è un orizzonte mobile che sta cambiando tutti i punti di riferimento a cui eravamo abituati, i modelli con cui le persone pensavano, agivano, sognavano e costituivano la propria identità, personale e professionale. Ognuno di noi ha quindi un proprio “valore” determinato dalle informazioni che può generare.

 

Ogni oggetto prodotto, anche quello tradizionalmente più stupido come un qualsiasi oggetto meccanico, assorbe oggi una quantità di intelligenza crescente, è questo il suo valore aggiunto. Il baricentro dell’industria e del lavoro si sposta così verso il design, ovvero verso l’arte di organizzare questa enorme mole di cose intelligenti in modo da valorizzarne funzionalità e la capacità di parlare tra loro, di capirsi. Chi troverà il modo di far parlare meglio tra loro tutte le cose che verranno fuori dalle fabbriche conquisterà il mondo, per così dire.

 

Passiamo dal mondo dell’industria a quello dei servizi. La connessione always on e il telelavoro, che abbiamo provato in questi mesi, hanno senz’altro smantellato il concetto stesso di ufficio, la banda larga restringe distanze e fa transitare scrivanie, archivi, sale riunioni e segreterie verso ambienti immateriali a portata di click. Quanto più ci comprendiamo come soggetti fatti di informazione (“data source”), quanto più ci è evidente che l’intelligenza non è una nostra esclusiva, tanto più ci sentiamo lontani dal centro dell’universo. Ma io non mi posso prendere in braccio da solo come sognava di fare il Barone di Münchausen, quindi alla fin fine il mondo informazionale ci farà riscoprire l’altruismo e potrebbe renderci meno egocentrici.

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