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Capitol Hill, per i social network è l’ora delle regole

Dopo l’assalto al Congresso da parte dei suoi supporter, nella giornata di mercoledì Twitter e Facebook hanno bloccato gli account del presidente Donald Trump, impedendogli di pubblicare messaggi indirizzati ai suoi oltre 88 milioni di follower su Twitter e ai 35 milioni circa su Facebook. Il social network di Mark Zuckerberg terrà l’account di Trump sospeso fino al 20 gennaio, data di scadenza del mandato, Twitter è pronto a sospenderlo in modo permanente se “le gravi violazioni” delle policy di integrità civica della società dovessero proseguire con ulteriori messaggi di natura violenta.

 

Una mossa giudicata tardiva da molti, visto che dalle elezioni di novembre in poi il presidente in carica non ha mai smesso di accusare i suoi avversari di brogli elettorali, nonostante i tribunali di mezza America e la stessa Corte Suprema abbiano respinto tutti i suoi ricorsi, giudicandoli infondati. “Non ci arrenderemo mai, non concederemo mai la vittoria”, ha detto anche ieri Trump arringando la folla davanti alla Casa Bianca e infiammando gli animi di molte delle persone che più tardi si sarebbero ritrovate davanti a Capitol Hill. Un concetto ribadito anche in serata, nel videomessaggio riparatore via Twitter con cui il presidente ha inviato i supporter assiepati all’interno del Congresso a tornare a casa: “So come vi sentite, vi amiamo, ma ora basta, nessuno si faccia male, andate a casa in pace, anche se le elezioni sono state rubate”.

 

Parole che per tutta la giornata negli Usa avevano suscitato un coro di voci sdegnate, con richieste a Facebook e Twitter di silenziare gli account del presidente da parte di utenti, attivisti dei diritti civili e persino da parte di alcuni finanziatori, come Chris Sacca, proprietario del fondo Lowercase Capital, che ha investito anche in Twitter. “Avete giustificato questo terrore per quattro anni, incitare in modo violento all’alto tradimento non significa esercitare la libertà di parola”, ha scritto ieri Sacca al Ceo di Twitter Jack Dorsey.

 

In questi mesi sia Twitter che Facebook si sono sempre rifiutati di rimuovere i posti di Trump per fermare la sua campagna di disinformazione sull’esito del voto, sostenendo che quei messaggi erano di pubblico interesse e limitandosi a segnalare o sospendere per brevi periodi di tempo quelli più controversi. Solo quando l’onda delle proteste ha cominciato a montare e la situazione a Capitol Hill è apparsa chiara in tutta la sua gravità, i due social hanno iniziato a rimuovere parte dei post presidenziali, incluso quello in cui Trump, commentando i disordini, aveva detto: “Queste sono le cose che succedono quando una schiacciante e sacrosanta vittoria elettorale viene strappata via brutalmente, senza troppe cerimonie”.

 

Troppo poco, troppo tardi. Quanto successo ieri è l’ennesima dimostrazione che non si può continuare a lasciare che siano sempre e solo i social network a stabilire cosa può e cosa non può circolare sulle loro piattaforme, quali contenuti sono attendibili e quali no, quali pericolosi e quali innocui. Quando in gioco ci sono i valori fondamentali della convivenza civile e della democrazia servono regole che fissino paletti precisi, che deleghino ad autorità terze e indipendenti le decisioni, dotandole di poteri di intervento incisivi. Queste regole devono essere il frutto di un dibattito ampio, che coinvolga politica, esperti, società civile, e le stesse aziende, ma vanno individuate quanto prima.

 

Chi si oppone a interventi di questo tipo appellandosi, di volta in volta, alla libertà di espressione, a quella d’impresa o alle caratteristiche peculiari dell’industria tech, che solo se libera da legacci potrebbe continuare a produrre innovazione e a prosperare, non tiene conto che in ballo c’è la tenuta dei nostri sistemi democratici e che senza democrazia quelle stesse libertà finirebbero per diventare effimere. La vicenda di Jack Ma, il fondatore di Alibaba di cui non si hanno più notizie da quando a ottobre, durante un evento a Shanghai, ha osato criticare il governo di Pechino, è emblematica.

 

L’avvento dei social network anziché rafforzare le nostre democrazie, rendendole più partecipate, le ha rese più fragili, fondamentalmente a causa di due fenomeni: il peso preponderante che i social hanno assunto nella comunicazione politica e la perdita di rilievo dei media tradizionali nel lavoro di filtro delle informazioni rilevanti. Sul primo versante i social consentono alla politica di disintermediare la comunicazione, di saltare cioè il passaggio attraverso i media tradizionali, con due effetti: da un lato i politici possono rivolgersi direttamente alle loro audience, proponendo la loro narrazione della realtà senza dover fare i conti con il contraddittorio; dall’altro, attraverso i social network, sono i politici a imporre l’agenda ai media mainstream e, quindi, ai cittadini, attuando un sostanziale ribaltamento delle funzioni, in una continua rincorsa all’ultimo post del politico di turno che i media tradizionali giustificano con la rilevanza pubblica di ciò che la politica comunica sui social (lo stesso argomento utilizzato da Facebook e Twitter per i post al vetriolo di Trump). Un cortocircuito informativo aggravato dal fatto che il tradizionale ruolo di filtro della stampa nello stabilire ciò che è notizia e ciò che non lo è, ciò che è attendibile e ciò che è infondato, sta venendo meno perché oggi in Occidente la maggioranza della popolazione si informa online, a partire da Facebook e dagli altri social.

 

Queste dinamiche sono pericolose per la democrazia per almeno due ordini di motivi. Se sui social tutti i contenuti informativi hanno in potenza lo stesso valore, perché nessuno si occupa di filtrarli, a fare la differenza non sono più la competenza, l’esperienza, la conoscenza, ma il numero di follower, la capacità di postare le narrazioni e i messaggi più evocativi ed efficaci per il target che si vuole raggiungere. Quanto più la narrazione semplifica, corrisponde a ciò che l’audience vorrebbe sentirsi dire, va a toccare nervi scoperti e individua facili soluzioni o colpevoli, tanto più sarà efficace. Che quello che si veicola sia vero o falso, poco importa. Secondo pericolo: i social finiscono per funzionare come camere dell’eco, in cui le idee e le credenze, per quanto fallaci, vengono amplificate e rafforzate dalla ripetizione continua all’interno delle community che le condividono. Se il presidente degli Stati Uniti non perde occasione per ribadire che le notizie dei mezzi di informazione sono tutte fake news, che la vittoria a valanga alle elezioni gli è stata rubata e che bisogna salvare la nazione dagli usurpatori, e questi contenuti sono rafforzati da fonti considerate come attendibili nelle comunità che a lui fanno riferimento, quella diventerà la realtà al di là di ogni evidenza di segno contrario nel mondo reale. È lo stesso meccanismo che alimenta le teorie del complotto, da quella sui vaccini di nuova generazione destinati a creare organismi geneticamente modificati a quella che vede dietro la pandemia un virus creato in laboratorio dai cinesi per affossare gli Usa e assicurarsi il primato economico mondiale. In questo calderone ognuno si erge ad esperto di tutto, ognuno ha un’opinione su tutto, ognuno aderisce alla narrazione che più lo soddisfa. La divisione tra mondo reale e virtuale viene meno, la realtà diventa quella dei social perché più rassicurante, più adeguata alle proprie aspirazioni o, semplicemente, perché risponde meglio alle proprie paure. Per ripristinare la verità occorre cacciare i falsi sacerdoti dal tempio. Capitol Hill è l’esito naturale di questa logica.

 

Tutto ciò che è successo durante l’assalto al Congresso era stato discusso per settimane su una pagina Facebook, Red-State Secession, la stessa che aveva chiesto ai suoi ottomila follower di condividere gli indirizzi di persone percepite come ‘nemiche’ residenti a Washington, tra cui giudici e membri del Congresso. Solo mercoledì mattina il social network è intervenuto per rimuoverla. Fino a quel momento era possibile leggere post che invitavano a tenersi pronti a usare “la forza per difendere la civiltà” e a occupare la capitale per costringere il Congresso a ribaltare l’esito del voto, con tanto di commenti bellicosi conditi da foto di fucili d’assalto, munizioni e altre armi. Prima della chiusura la pagina aveva provveduto a reindirizzare i follower su Parler e Gab, due social media alternativi divenuti popolari nei circoli di destra negli ultimi mesi, dove i seguaci di Trump hanno continuato a organizzarsi e a comunicare per tutta la giornata di mercoledì, con #stormthecapitol come trending topic.

 

Prima dell’assalto al Congresso c’erano già stati almeno altri due importanti campanelli d’allarme, le elezioni che nel 2017 avevano portato all’elezione dello stesso Trump e il referendum del 2016 sulla Brexit, con l’intervento di potenze straniere per orientare attraverso campagne di disinformazione online e sui social network – Facebook in testa – il voto degli indecisi, degli ‘arrabbiati’, delle fasce della popolazione più colpite dagli sconvolgimenti della globalizzazione e dalla crisi del 2008. Anche in quel caso la reazione di Facebook arrivò a tempo scaduto, quando i buoi erano già scappati dalla stalla. Un lusso che non possiamo più permetterci in una fase in cui tutte le democrazie occidentali sono alle prese con la pandemia e i suoi effetti disastrosi in termini di crisi economica e tenuta del tessuto sociale, oltre che sulla salute. Se vogliamo scongiurare il rischio che quanto visto a Capitol Hill possa ripetersi, negli Stati Uniti come in Europa, dobbiamo dotarci quanto prima di nuove regole e nuovi strumenti che, nel rispetto dei diritti e degli interessi di tutte le parti coinvolte, siano capaci di arginare disinformazione e strumentalizzazioni in Rete. Un compito che non può essere lasciato ai soli social network, perché coinvolge gli interessi di tutti.

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