Le immagini della scorsa notte resteranno impresse nella memoria di tutti. L’assalto alla democrazia di Trump costituirà un precedente, un caso di scuola. Dalla reazione politica, culturale e sociale a quanto è accaduto a Capitol Hill dipenderà il posto che troverà nella storia.
Può diventare il momento più basso di una parabola che ha visto progressivamente mortificati i capisaldi della convivenza democratica o l’inizio di una deriva ancora più pericolosa.
In gioco c’è il concetto del limite. Un passo dopo l’assalto al Campidoglio, c’è la fine della democrazia. La legittimazione della violenza e della sovversiva presunzione di poter cancellare le regole è stata sistematicamente perseguita da Trump e dal trumpismo. Ma è stata anche minimizzata, tollerata e involontariamente alimentata da un’opinione pubblica assuefatta alla propaganda del relativismo e del negazionismo. La differenza netta tra possibile e impossibile, tra legale e illegale, tra la politica e l’eversione è saltata da tempo. E non solo negli Stati Uniti. Le conseguenze sono nella notte di Washington, insieme rappresentazione dell’assurdo e improvvisa manifestazione di una realtà che finora era stata solo teorizzata come uno scenario estremo.
Saranno le indagini già iniziate in queste ore a tentare di spiegare cosa sia successo veramente, con la connivenza di parte della macchina dello Stato a rendere possibile la folkloristica irruzione di uomini mascherati e armati nel cuore della democrazia americana. Ma il segno complessivo, e più profondo, di quello che è accaduto deve essere evidente a tutti: il confine tra la dialettica politica e la guerra per bande va ristabilito e difeso.
Servono le Istituzioni, serve una politica consapevole del proprio ruolo, e una società capace di dividersi e di tenere sempre contendibile il consenso ma capace anche di isolare e rifiutare le tentazioni eversive. Va ripristinato e rinforzato il muro del confine, fatto di leggi, regole e di tutti gli strumenti che servono a far funzionare la democrazia.