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Regioni, vent’anni di Titolo V. Parliamone

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È nella recentissima ordinanza della Corte costituzionale – che sospende per la prima volta nella storia della giurisprudenza costituzionale una legge regionale, quella della Valle d’Aosta sulla gestione del Covid – che si può trovare forse il massimo esempio di come si sono articolati i rapporti fra lo Stato e le Regioni durante i vent’anni (2001-2021) dall’approvazione di quel titolo della Costituzione – l’ormai famoso Titolo V – che disciplina i rapporti, appunto, fra lo Stato e le nostre Autonomie.

 

 

 

OSSIA? OSSIA UNA CONFLITTUALITÀ fortissima che talvolta è apparsa, addirittura, inspiegabile agli occhi di un normale cittadino, come si può evincere appunto da quest’ultima ordinanza con la quale la Corte ha ridotto i margini di autonomia regionale su una materia concorrente – la tutela della salute rispetto a una pandemia – facendola rientrare correttamente in una materia di competenza esclusiva dello Stato (la profilassi internazionale).

 

 

 

Quella che a noi cittadini sarebbe apparsa una questione di buon senso – se non è una pandemia globale una questione statale, non regionale, quale altra lo sarebbe? – per il legislatore non lo è. Appare evidente allora che c’è qualcosa che non va in questa parte ampia della Costituzione – il Titolo V – e nell’uso che ne è stato fatto, come questi anni, peraltro, non hanno fatto altro che progressivamente confermare. Vi è innanzitutto una ragione generale, sistemica: si tratta di un testo costituzionale immaginato, pensato e costruito sulla realtà di un Paese che non gli corrisponde. Cioè questo testo non corrisponde al contesto storico-geografico-politico del nostro Paese, posto che articola i rapporti tra lo Stato e le Autonomie come se l’Italia fosse un Paese federale. E tale – come noto – non è.

 

 

 

 

Si dirà: perché è stato fatto ciò? Da un lato per ragioni politiche di allora, provare a inseguire e catturare da parte del centro-sinistra il voto para-secessionista della Lega (ancora) Nord di Umberto Bossi; dall’altro, nell’idea di favorire una ‘europeizzazione’ alla tedesca – davvero male intesa – delle nostre istituzioni. Le conseguenze di queste scelte, tra mezzucci politici e miopie tecniche, quindi, non hanno tardato a mostrarsi. E a vent’anni di distanza, ne sono emerse principalmente tre: vediamole.

 

 

 

 

In primo luogo, l’assenza di un luogo costituzionale – cioè trasparente e visibile – della mediazione necessaria tra lo Stato e le Regioni. Insomma, la mancata riforma del nostro bicameralismo con l’introduzione di una seconda camera delle Autonomie, comunque voi la vogliate configurare, ha pesato moltissimo sulla dinamica reale e concreta dei rapporti tra lo Stato e le stesse Autonomie. Infatti, tutto ciò ha fatto emergere solo un luogo – il sistema delle Conferenze Stato, Regioni, Autonomie locali – che per la sua debole configurazione e natura è quanto di meno degno si possa offrire allo scopo. In secondo luogo, il riparto di competenze. Il ‘chi fa cosa’.

 

 

 

Evidentemente, tenuto conto delle importantissime materie – dalla tutela della salute all’istruzione – che, pur nell’asimmetria tra cornice e quadro, condividono lo Stato e le Autonomie, l’assenza di una vera clausola di preminenza pesa come un macigno ogni volta per stabilire quale legislazione debba prevalere e non di rado la via più breve è il conflitto costituzionale. Ultimo, le slabbrature sui territori che le asimmetrie – a tratti arlecchineschi – vengono a creare determinano spesso evidenti differenze tra i cittadini in termini di diritti, marcando così un Paese nel quale, non soltanto ogni cento chilometri – a volte addirittura meno – cambia la normativa, ma anche nel quale si rischia di perdere quella imprescindibile unità nel livello dell’esercizio dei diritti che è stigma di cittadinanza comune, espressione di una comunità che vive assieme perché, assieme, condivide gli elementi di base che l’ordinamento gli riconosce, a partire dai servizi legati al welfare.

 

 

E questa pandemia non ha fatto altro che acuire questi mali. Che fare dunque? Nel celebrare il suo ventennale, si torna a parlare – da ultimo lo ha fatto il Presidente Conte nel suo intervento in Parlamento mentre chiedeva la fiducia per proseguire con il c.d. Conte-bis – di una riforma del Titolo V, sebbene non abbia in alcun modo delineato secondo quali criteri, modalità, percorsi ed obiettivi. Avverrà? Di certo l’urgenza non manca.

 

La versione originale di questo articolo, a firma di Francesco Clementi, è disponibile sul numero di Fortune Italia di febbraio 2021.

 

*Francesco Clementi è professore di diritto pubblico comparato dell’Università degli studi di Perugia

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