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Investimenti sostenibili, il rischio greenwashing

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Francesco Bruno

Francesco Bruno

Francesco Bruno è Professore di Diritto Ambientale presso l'Università Campus Biomedico e Founding Partner di B - Società tra Avvocati

Servono meccanismi di controllo più stringenti per i prodotti finanziari sostenibili, per evitare il pericolo greenwashing. Di Francesco Bruno.

Sviluppo sostenibile, tutela degli ecosistemi e ponderazione degli interessi tra attività produttiva, lavoro e preservazione dell’ambiente e della salute sono diventati da alcuni anni una frontiera fondamentale della politica del diritto.

Recentemente il panorama si è arricchito della cosiddetta “finanza sostenibile”, ovvero l’applicazione all’attività finanziaria del concetto di sviluppo sostenibile che ha come obiettivo quello di creare valore nel lungo periodo, indirizzando i capitali verso attività che non solo generino un plusvalore economico, ma siano al contempo utili alla società e non a carico del sistema ambientale.

Oggi sembra che non si possa fare a meno di investire in fondi ESG (acronimo che sta per Environmental, Social, Governance), ossia in masse gestite secondo strategie di investimento “sostenibile e responsabile”. Si tratta, semplificando, di investire (cercando un profitto) su quelle imprese che esercitano attività legate all’investimento responsabile (IR) che perseguono gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance.

Va dunque preso atto che gli investimenti sostenibili e responsabili “SRI – Sustainable and Responsible Investment” si sono affermati clamorosamente a livello mondiale, grazie alle molteplici opportunità offerte a investitori istituzionali e retail. E qui non può non intervenire il giurista ambientale con alcune riflessioni.

Innanzitutto, il meccanismo legale è sostanzialmente il medesimo di tutti gli altri impegni finanziari presi dalle imprese, che viene integrato attraverso una documentazione pubblica (in Italia si tratta del bilancio di sostenibilità) in cui la Società manifesta le sue “virtù” a favore della sostenibilità e della preservazione degli ecosistemi.

A livello globale le varie autorità e legislazioni si riferiscono a parametri differenti che devono essere rispettati per poter essere autorizzati ad auto-dichiararsi “sostenibili”. In Europa, ad esempio, nel marzo 2018, la Commissione Europea ha pubblicato un “Piano d’Azione per la finanza sostenibile” che sostanzialmente raccorda gli impegni a quelli dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

La cosa interessante a livello europeo è che vi è una norma che prevede nuovi obblighi di disclosure in capo agli intermediari in merito alle modalità adottate per l’integrazione nelle scelte di investimento e nell’attività di consulenza dei “fattori di sostenibilità”, nonché un’altra che dispone una tassonomia delle attività eco-sostenibili, ossia un sistema condiviso di classificazione e certificazione dei prodotti e servizi considerati sostenibili in grado di ridurre il rischio di pratiche scorrette (greenwashing).

Se si considera che l’11 Dicembre 2019, come a tutti ormai noto, è stato adottato il Green Deal Europeo, ovvero una “strategia” costituita da un serie di misure per rendere più sostenibili e meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia e lo stile di vita dei cittadini europei, viene da sé considerare il diritto ambientale europeo come la materia centrale dei prossimi anni.

Tuttavia – ammesso che le imprese (e gli intermediari) rispettino formalmente quanto previsto dai legislatori e le autorità per poter essere considerati “sostenibili” e quindi godere dell’immenso vantaggio di accedere facilmente a un mercato di capitali sempre più indirizzato verso tali tipologie di investimenti – dovrebbe essere verificato se quanto affermato sotto il profilo dei requisiti ambientali sia vero. E qui ancora nulla è stato fatto sotto il profilo normativo.

Si tratta di un vuoto che deve essere assolutamente colmato, con l’introduzione di specifiche sanzioni amministrative e reati (si potrebbe pensare a una sorta di “frode climatica”) e specifiche forme di danno (un danno climatico, sulla scorta del danno ambientale). Non a caso il Paese all’avanguardia in tema di regole sul mercato dei capitali (gli Stati Uniti), si è già prontamente mosso, poiché è stata appena creata all’interno della Sec (la Consob americana) la task force “Climate and Esg”, in modo da verificare che le promesse di greenwashing siano veritiere e realmente applicate.

Senza indugio anche l’Unione Europea dovrebbe andare nella stessa direzione e gli Stati (che hanno la competenza sulla materia penale) ragionare su strumenti che possano dissuadere illeciti finanziari “verdi”. Si è pensato in Italia di introdurre nel 2015 gli ecoreati per dissuadere le imprese a non inquinare, quando – in realtà – la stragrande maggioranza delle nostre aziende è sana e sorregge la nostra struttura sociale creando ricchezza. A maggior ragione, si dovrebbe poter controllare e rendere efficaci e reali gli investimenti alle imprese davvero sostenibili, che sono la stragrande maggioranza e dovrebbero essere tutelate da meccanismi finanziari che paradossalmente potrebbero invece nuocere loro.

 

*Francesco Bruno è Professore di Diritto Ambientale presso l’Università Campus Biomedico e Founding Partner di B – Società tra Avvocati

 

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