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Internet, c’è vita oltre la pubblicità targettizzata?

dati personali

Niente più “pubblicità della sorveglianza”. È la sintesi di un disegno di legge presentato nei giorni scorsi da alcuni parlamentari democratici al Congresso degli Stati Uniti d’America. La “pubblicità della sorveglianza” è quella che, con un anglicismo ormai divenuto di uso comune tra gli addetti ai lavori, si definisce “targettizzata”, ovvero destinata a un target predefinito sulla base di profili di consumo di utenti e consumatori.

Si tratta del modello di business di riferimento dell’intero ecosistema digitale nel quale le big tech – e, per la verità, non solo loro – raccolgono quantità industriali di nostri dati personali, li analizzano per identificare i nostri gusti, le nostre preferenze, le nostre idee e le nostre debolezze. Poi li vendono – in maniera più o meno diretta – agli investitori pubblicitari per consentire loro di proporci l’acquisto di prodotti e servizi di nostro interesse o, comunque, di proporcelo con forme, toni e modalità capaci di far leva sulle nostre debolezze.

Naturalmente, lo stesso meccanismo è utilizzabile – e, anzi, utilizzato – anche nella dimensione politica, in occasione, ad esempio, di campagne elettorali, referendum e simili.

Inutile dire che questa pubblicità ha un valore enormemente superiore rispetto alla pubblicità di un tempo, quella diffusa attraverso giornali di carta, radio e televisioni: lo stesso messaggio diffuso a milioni di destinatari a prescindere dai loro gusti, dalle loro preferenze, dalle loro propensioni di acquisto.

Ieri, tanto per intenderci, si promuoveva un hamburger anche a un vegano con poche chance di successo mentre oggi, online, non accade, oppure accade solo per errore se, per una ragione o per l’altra, il profilo di un utente non è abbastanza preciso.

Ora proprio negli USA, il Paese che ha dato i natali alla più parte delle big tech, si propone di cambiare completamente registro (un ritorno al passato, in qualche modo). Lo si fa perché si ha il fondato sospetto che l’accumulo di quantità industriali di informazioni personali nelle mani di pochi – i cosiddetti oligopolisti dei dati – e la conseguente disponibilità da parte di questi ultimi di profili sempre più precisi dell’intera popolazione americana costituisca, probabilmente, l’origine di molti dei maggiori rischi ai quali Internet espone mercati, democrazia e diritti (sebbene contestualmente, guai a negarlo, offra loro inimmaginabili opportunità).

Il vero problema, insomma, non è la pubblicità targettizzata, ma la circostanza che la sua produzione sottende, richiede e giustifica l’accumulo nelle mani di pochi di quantità abnormi di dati personali.

Dati capaci di influenzare, orientare, guidare la formazione dell’opinione pubblica e della coscienza collettiva, in tutte le dimensioni della vita delle persone, dei mercati e delle democrazie.

E non c’è nessun dubbio, d’altra parte, che se la disinformazione, una delle piaghe più pericolose della stagione che stiamo vivendo, è oggi così tanto efficace, è anche e soprattutto perché informazioni false, tendenziose o di parte possono esserci presentate come sempre più credibili proprio grazie al fatto che chi ce le propone sa così tanto di noi da riuscire a intercettare i nostri interessi e le nostre debolezze.

Vietare la pubblicità targettizzata sarebbe – qualora la proposta di legge avesse successo – una decisione storica, rivoluzionaria, unica nel suo genere nella storia dell’Internet che conosciamo, una decisione capace, da sola, di cambiarne alla radice il patrimonio genetico, il volto, le dinamiche di funzionamento e gli equilibri dell’intero ecosistema digitale.

I forzieri di dati personali sui quali le big tech hanno costruito il loro potere di mercato si ritroverebbero, più o meno, svuotati di valore dalla sera alla mattina. Perché se quei dati non potessero più essere utilizzati per scopi pubblicitari la loro catena del valore si interromperebbe sul nascere o, almeno, sarebbe sensibilmente ridimensionata. Nel mercato dei servizi digitali ci sono posizioni poco contendibili (o niente affatto): vince inesorabilmente chi ha più utenti, e soprattutto chi li conosce di più. Con un provvedimento del genere il mercato tornerebbe a essere libero.

Ma non basta perché il venir meno dell’interesse economico alla raccolta di quantità industriali di dati personali e il progressivo svuotamento dei forzieri nei quali sono conservati ridimensionerebbe in maniera rilevante il rischio di manipolazione e orientamento delle coscienze collettive e di condizionamento delle scelte democratiche.

Insomma, Internet diventerebbe – o forse, meglio, tornerebbe a essere – un luogo o non-luogo più libero.

Ma vale la pena dire subito che le chance che la proposta dei democratici diventi legge sono modeste. Ne sono probabilmente convinti anche gli analisti dei mercati che, altrimenti, avrebbero punito severamente in borsa i titoli delle big tech.

E, tuttavia, l’iniziativa legislativa qualche altra considerazione la suggerisce.

Proprio mentre l’Europa rimprovera agli USA di non avere abbastanza a cuore la privacy degli utenti dei servizi digitali, tanto da non ritenere più il Paese una destinazione sicura per i dati personali dei cittadini europei, al Congresso approda una proposta di legge se possibile più rigorosa, in termini di tutela della privacy, delle più rigorose iniziative in cottura al Parlamento europeo.

Basti pensare che giusto una manciata di giorni dopo la presentazione a Washington del disegno di legge in questione il Parlamento di Strasburgo ha approvato il draft del Digital service Act. Nel documento ci si limita – per modo di dire – a prevedere che nella pubblicità targettizzata non possano essere usati i dati personali dei minori e quelli particolarmente sensibili tipo quelli sulla salute, la fede religiosa o le opinioni politiche.

E la proposta di legge americana suggerisce anche un’altra considerazione, forse, più ampia e generale.

Internet, protagonista indiscussa dell’ultima rivoluzione globale, è più fragile di quanto generalmente non si pensi, se una manciata di caratteri scritti un una norma di legge potrebbero bastare a cambiarne radicalmente i connotati e a rendere d’argilla le gambe dei giganti che oggi la controllano, e che appaiono immortali.

Di Guido Scorza, Componente collegio Garante per la protezione dei dati personali

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