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Lobbying: problema di semantica

“Le parole sono importanti”, si diceva in una scena di morettiana memoria, eppure nessuno pare ricordarselo. Un problema che si acuisce ancor più quando si utilizzano parole “importate” dall’estero.

La mia, è una riflessione che scevra da ogni interesse di settore, nasce dalla lettura dei giornali degli ultimi giorni e riguardanti la tematica del lobbying: dapprima con l’approvazione della proposta di legge alla Camera sulla regolamentazione del settore e poi con le accuse in cui è incappato il garante del primo partito del Paese (per numero di parlamentari).

La parola lobby (e suoi derivati) che ha riempito pagine di giornali e discorsi degli italiani non ha, ancora, nel contesto italiano una sua connotazione definita e autentica. Un peccato originale non da poco, nonché lesivo, per un’attività e una figura fondamentale, sempre esistita, all’interno del processo democratico di un Paese.

Sarà un deficit tutto italiano, ma ogni cosa o attività collegata direttamente o indirettamente con la politica è, aprioristicamente, poco chiara, oscura e ai limiti dell’illecito perché, in fondo si sa che “il potere logora…”

Un peccato che colpisce indistintamente opinione pubblica e giornali che, come è normale che sia, la influenzano o forse, ormai, la seguono adattandosi al gergo comune, inseguendo una strategia “acchiappa click” tipica degli algoritmi da social media.

È sufficiente leggere i titoli dei giornali del 19 gennaio scorso, così come quelli di dieci anni fa, in cui la parola lobbista è associata all’attività di faccendiere, nonché di “trafficante di influenze” che, invece, rientrano in specifiche fattispecie di reato previste dalla nostra legislazione.

La mia non intende essere una difesa di parte, ma un ragionamento tra amici su quello che dovrebbe essere la funzione primaria del mondo dell’informazione: formare attraverso le informazioni.

Quindi, cosa fa un lobbista?

La teoria dice che: “promuove e tutela gli interessi della parte che rappresenta.” La vulgata aggiunge: “attraverso sotterfugi e corruzione, a danno dei cittadini e al solo vantaggio delle (ricche) imprese”.

Bene, rilancio… cosa fa un sindacalista? E le federazioni rappresentative di settore?

Esatto, attività di lobbying, perché rappresentano al decisore (di turno) gli interessi dei rappresentati e in Italia lo fanno dalla fine del 1800 (n.d.r.) aiutando l’affermazione e l’ottenimento di sempre maggiori libertà e diritti per la popolazione italiana. Quindi, di certo non possiamo affermare che si tratti di entità oscure o dalle attività discutibili.

Perché, quindi, questo approccio nei confronti di questa attività e dei suoi operatori? Il nostro è un problema di percezione, e non importa come sia nata o venga alimentata, l’importante è capire che talvolta le percezioni sono errate.

Un errore in cui è caduta anche la stessa classe politica con l’elaborazione del testo sulla trasparenza delle lobby, attraverso cui hanno cercato di intervenire sui singoli lobbisti, individuando alcune fattispecie e tralasciandone altre (tra l’altro le più comuni dalle Confederazioni ai sindacati), anziché sullo stesso processo legislativo.

In realtà, dimentichiamo che non è il soggetto a determinare il tipo di attività, ma è l’attività che definisce il soggetto che la compie.

Ce lo dice la lingua italiana, e qui torniamo al problema iniziale, le parole sono importanti perché “possono essere ferro oppure piuma…”.

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