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Venture capital Usa: non esiste solo la Silicon Valley

silicon valley venture capital

Il mito, in Italia, è che i fondi venture capital che investono in startup, innovazione, roba digitale, siano solo californiani, anzi per la precisione siano solo di Silicon Valley e dintorni (la cui città di riferimento è San Francisco). Il mito va seriamente rivisto, anche a beneficio di noi italiani, che andiamo in cerca di finanziamenti.

Negli ultimi anni sono diversi i venture capital non-Cal che investono sia in realtà americane sia in realtà europee e italiane. In particolare, numerose città americane sono emerse come sedi di venture capital e, in generale, di una ricca comunità di startup con ecosistemi digitali che poco o nulla hanno da invidiare a Silicon Valley.

I nomi sono presto detti: Miami per il mondo criptovalute (città dove legalità e illegalità si mischiano e le crypto sono un aggiunta lodevole…), Chicago (logistica), Washington DC (cybersecurity, con la presenza rilevante del Pentagono), Boston (sede del MIT, dove due cose di tecnologia le sanno), New York (molte Big tech hanno ultimamente investito massicciamente in uffici in questa area).

A questi centri principali si aggiungono una serie di ‘second tier city’, quelle che, per i nostri standard, potremmo definire città di provincia: Kansas City, St. Louis, Pittsburgh, Tulsa.

Ovviamente le città di provincia hanno venture capital più piccoli, ma d’altro canto hanno anche costi della vita più bassi. Un fattore da tenere a mente, quando si investe, sono anche i costi fissi di una startup. In Silicon Valley il costo di un programmatore è decisamente superiore rispetto a piccole cittadine di provincia o anche centri come Boston o DC.

Chi mette i soldi in Italia

Dato che mappare tutta l’America senza tirar fuori nemmeno un nome è opera vana, ho pensato di parlare con chi si sta occupando di investimenti in realtà europee e specialmente italiane (spesso sottocapitalizzate e con scarsa capacità di relazionarsi con i venture capital oltre oceano).

“In termini di competenze abbiamo ottime università, creatività e visione d’insieme; noi italiani non abbiamo nulla da invidiare alle startup americane ed europee”, mi spiega Arrigo Panato, fondatore dello studio commercialista omonimo che ha contribuito a creare il link tra i venture capital di Boston e l’Italia. “Purtroppo, siamo penalizzati dalla mancanza di una forte domanda interna d’innovazione, causata da un mercato poco competitivo. Questo riduce il premio per l’innovazione e mantiene alti i rischi. Inoltre, la grande sfida è la raccolta di capitali: il mercato italiano del venture capital ha dimensioni limitate, spesso con un preesistente focus su specifiche città, come Milano. Tuttavia, quest’approccio, in termini di distribuzione di capitali, limita fortemente la nascita di startup che possano ambire ad una raccolta importante”.

Milano e l’Italia possono ambire a costruire hub di secondo livello, dice Panato. “Le startup (e più in generale le imprese) capaci di scalare, devono strutturarsi in Italia ma essere pronte a connettersi con un ecosistema più ampio e sfidante come quello di Boston. Un ecosistema che deve portare capitali ma anche competenze e un mercato più strutturato e maturo per l’innovazione.
Per questo l’iniziativa portata avanti da Andrea Ridi con Accelerate Italy è convincente e come Studio che opera da tempo nel mondo delle imprese innovative, abbiamo deciso di supportarla. Senza dimenticare che il lato bostoniano è formato oltre che da investitori da startupper con ottime exit alle spalle. Questo per noi è una garanzia importante”.

Uno dei temi di maggior interesse, per i venture capital americani, è il costo delle nostre startup (costo inteso come quantità di soldi necessari per finanziare). Le realtà europee, e italiane, tendono ad essere più economiche rispetto a quelle americane, pur mantenendo la stessa qualità in termini di approccio digitale.

“Quando abbiamo cominciato ad operare a Boston, ci siamo accorti che l’offerta locale di startup era, in termini di creatività, non differente da quella italiana, ma con costi di entrata più elevati” mi spiega Andrea Ridi di Accelerate Italy. “Abbiamo quindi deciso di creare un tema multidisciplinare con soci che provenissero sia dal settore venture capital americano che dal settore industriale, che potessero attrarre e far crescere startup italiane e farle sviluppare anche nel mercato americano. Quello che proponiamo è il “dual model”, o modello israeliano: ricerca e sviluppo in Italia e successivo trasferimento della sede e della gestione all’estero, per attrarre capitali e accedere a un mercato che permetta di scalare la propria attività. Questo si traduce generalmente nella creazione di una C-corp statunitense, veicolo nel quale far confluire i finanziamenti per lo sviluppo ed eseguire il go-to market, con una società sussidiaria italiana, dedicata alla gestione della ricerca e delle risorse umane”.

Come ha dimostrato Israele, questo è un approccio vincente, in quanto permette alle startup di accedere al mercato e alla finanza internazionale, generando exit con standard americani.

Di solito, il ricavato delle exit viene reinvestito dagli imprenditori creando dei nuovi fondi per supportare nuove startup in questo percorso, creando un circolo virtuoso di capitali e di esperienze.
Esistono, quindi, startup italiane che crescono all’estero?

“Sicuramente esistono”, mi spiega Panato. “Uno degli esempi più recenti è il caso di AdEspresso: nato a Milano, evoluto in Silicon valley e venduto a HootSuite per decine di milioni. Il tutto con un tempo di crescita di poco superiore ai 5 anni”.

Il fenomeno esiste ma è un percorso che, senza un bootstrap di venture capital californiani, non potrebbe esistere. Non si parla ovviamente solo di soldi ma anche di network di valore.
“Il valore di un venture capital, spesso, non sono i soldi. O meglio, sono una risorsa fondamentale ma, specialmente nelle fasi iniziali della crescita, sono le relazioni pregresse dei partner di una venture capital a poter generare quell’humus di contatti, industriali e commerciali, che permettono alla startup di svilupparsi. Ovviamente operare in un mercato come quello americano, con una dimensione di circa 300 milioni di potenziali clienti, senza barriere linguistiche o culturali significative, è un vantaggio che le startup Italiane non hanno in patria”, conclude Ridi.

Ma ai fondi perché interessa?

L’approccio di investimento dei fondi è di solito orientato a gruppi con una dimensione e un’evoluzione più avanzata rispetto alle startup. E tuttavia i fondi hanno una necessità, quando partecipano un’azienda: l’innovazione. Che si chiami open innovation, disruption, rivoluzione creativa, una delle variabili che ogni fondo deve valorizzare, per le aziende che partecipa, sono la sua capacità di essere innovativa e digitale. Non è un segreto che la maggioranza del tessuto economico italiano è composto di medie aziende, con una presenza di “fermenti digitali” limitata. In tal senso avere un accesso a risorse digitali che parlano italiano (leggi startup) ma con una proiezione su mercati americani, può esser un volano per molte Pmi italiane. Un ulteriore valore nel caso le startup italiane non siano ancorate alla sola Silicon Valley e i suoi venture capital ma alle differenti città che si stanno specializzando come le sopra menzionate DC, Chicago, Boston e Miami (quest’ultima da prendere con molta cautela).

 

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