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The Good Lobby, quando i cittadini fanno lobbying

L’attività di lobbying nell’immaginario collettivo italiano è legata ad un malinteso concetto di malaffare. Certi media, più o meno consciamente, accreditano nell’opinione pubblica una attività guidata da interessi elitari e/o addirittura corrotti. Un pregiudizio, purtroppo, profondamente radicato a livello culturale che, alla fine, si finisce per ignorare la complessità di un settore polimorfo come quello della rappresentanza di interessi legittimi.

Una di queste forme è rappresentata, ad esempio, dal lobbying civico che punta al coinvolgimento diretto dei cittadini. Ne abbiamo discusso con Federico Anghelé (nella foto in evidenza), direttore della sede italiana di The Good Lobby, un’associazione no profit che incoraggia la partecipazione dal basso e promuove campagne di pressione su tematiche socialmente rilevanti.

Siamo tutti lobbisti” è una massima ormai nota, ma non tutti i rappresentanti d’interessi sono uguali. The Good Lobby, ad esempio, è un’organizzazione non profit. In cosa si differenzia dalle agenzie che lavorano nel settore del Public Affairs?

Ci sono molte differenze ma anche qualche complementarietà tra The Good Lobby e le agenzie che si occupano di Public Affairs. La nostra, appunto, è un’organizzazione non profit la cui missione è quella di democratizzare l’accesso alle decisioni pubbliche. Lo facciamo sensibilizzando cittadini, movimenti, gruppi informali, organizzazioni del terzo settore sull’importanza di occuparsi delle policy, individuando i decisori pubblici competenti sui temi per loro cruciali e provando eventualmente a influenzare l’ecosistema decisionale. La nostra è prima di tutto un’attività di formazione, rivolta a quei soggetti e gruppi che, seppur portatori di interessi condivisi ed esponenziali, faticano a essere coinvolti nei processi decisionali o non hanno risorse e struttura per poterlo fare.

Pensiamo che riequilibrare la partecipazione alle decisioni politiche, coinvolgendo chi si batte per diritti fondamentali, per contrastare il cambiamento climatico, per salvaguardare l’ambiente, per superare le discriminazioni di genere, solo per fare alcuni esempi, permetta di migliorare la qualità delle decisioni stesse.

Le nostre attività di formazione sul lobbying civico possono diventare delle vere e proprie incubazioni per quei progetti più promettenti in termini di ricadute sistemiche e al contempo più bisognosi di aiuto e collaborazione. Qui sarebbe prezioso il supporto dei colleghi delle agenzie che si occupano di Public Affairs. A Bruxelles questa attività di mentorship pro bono funziona: i progetti grass-roots vengono sostenuti da studi legali per quanto riguarda il contenzioso strategico; da accademici ed esperti per i contenuti; da lobbisti per la mappatura dei decision makers; da comunicatori, per la sensibilizzazione del pubblico più ampio. Stiamo provando a introdurre questo modello virtuoso anche in Italia, ma senza dubbio bisogna vincere alcune resistenze culturali.

The Good Lobby, inoltre, è attiva anche sui temi dello stato di diritto, della trasparenza, della promozione della partecipazione civica e della difesa della democrazia attraverso campagne di advocacy che hanno l’obiettivo di costruire un perimetro di regole che valgano per tutti in grado di rendere le nostre istituzioni più integre, aperte, legittimate.

Un punto cardine della vostra attività riguarda la promozione di una legge sulla regolamentazione del lobbying in Italia. Anche l’ultimo tentativo, il novantaquattresimo, è fallito. Dal vostro punto di vista quale potrebbe essere la strada giusta per raggiungere l’obiettivo?

La Germania ha introdotto una normativa sul lobbying a seguito di alcuni scandali che hanno travolto la politica. Chissà che il Qatargate, che ad oggi ha coinvolto soprattutto italiani, non abbia questo effetto. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha riconosciuto la necessità di una regolamentazione; il presidente della Camera Fontana ha affermato che devono essere evitate le influenze straniere sui parlamentari: ora è il momento di tornare a chiedere tutti insieme che l’Italia si doti finalmente di un quadro di regole chiaro ed efficace. Noi, anche grazie alla coalizione Lobbying4Change che raduna 40 sigle non profit note o meno note tutte interessate a processi decisionali più trasparenti e aperti, non abbiamo mai smesso di farlo. Ma credo che andrebbe creata una coalizione ancora più ampia, che raduni tutti coloro i quali hanno a cuore il funzionamento dei processi democratici e la qualità delle politiche pubbliche. Una normativa davvero utile dovrebbe certamente promuovere la trasparenza, ma evitando quegli errori emersi dallo scandalo dell’Europarlamento. È giusto fare richieste ai portatori di interessi, ma è altrettanto giusto che eguali oneri siano in capo ai decisori pubblici. Anche perché a noi, da rappresentanti di interessi generali ma deboli, perché troppo spesso privi di una rappresentanza strutturata interesserebbe sapere non solo chi i nostri politici hanno incontrato, ma anche perché altri soggetti non sono stati incontrati. Ne emergerebbe, crediamo, una sottorappresentazione di quegli interessi esponenziali portati avanti dal terzo settore e dalla cittadinanza attiva. Da qui, il secondo cardine di una normativa efficace dovrebbe essere la partecipazione: le istituzioni dovrebbero mettere in campo percorsi in grado di superare le asimmetrie informative e volti a raccogliere tutti i punti di vista utili a fotografare le ricadute che una data politica potrebbe avere sul territorio, su gruppi sociali, sull’ambiente, su categorie economiche.

Oggi sempre più organizzazioni della società civile sanno di non poter contare sui padrini politici del passato. E si rendono conto di aver bisogno di regole che li aiutino e tutelino. La mancanza di regole, però, tende a facilitare gli attori già consolidati, che vantano rapporti decennali e strutturati con la politica e le istituzioni.

In questi giorni abbiamo visto come il Qatargate sia partito dalla segnalazione di un whistleblower. Secondo voi, ora che anche in Italia è stata recepita la direttiva sul whistleblowing (che la vostra organizzazione ha promosso fortemente), si riuscirà a far emergere la differenza tra simili attività illecite e la rappresentanza d’interessi professionale?

Perché si arrivi a questo traguardo storico serve agire su più piani. Il primo, normativo, lo abbiamo già affrontato. Va aggiunto che una regolamentazione permetterebbe di perimetrare l’attività di rappresentanza di interessi, dicendoci una buona volta cosa è lecito e cosa non è lecito fare. Non è un caso se non si arrivi a condanne per il reato di traffico di influenze illecite: in più occasioni i giudici hanno stabilito che mancano indicazioni su cosa non sia patologico (e quindi ascrivibile alla categoria dei reati penali) nella rappresentanza di interessi per poter giungere a una condanna.

Una legge, poi, avrebbe il merito di riconoscere finalmente una professione tanto cruciale per il funzionamento della democrazia quanto bistrattata socialmente e giornalisticamente. Ecco perché servirebbe agire anche sul piano culturale: quando svolgiamo le nostre formazioni base, i cittadini rimangono molto affascinati dallo scoprire il ciclo di una politica pubblica. Le fasi di analisi, di acquisizione di pareri, di elaborazione, sembrano scontate agli occhi degli addetti ai lavori, ma non lo sono per nulla per chi non vive nelle istituzioni. E devo dire che anche gli studenti di giurisprudenza o scienze politiche, seppur preparati teoricamente, faticano a vedere le ricadute concrete di ciò che hanno appreso.

Un’azione culturale, insomma, non dovrebbe limitarsi a spiegare cosa fanno i lobbisti e che contributo essi possano dare alle politiche pubbliche; dovrebbe proprio partire da queste ultime e da come funzionano i processi decisionali. Mettendo in luce come quelle scelte politiche che hanno ricadute sulla vita di ciascuno di noi sono anche il frutto del lavoro di tanti attori diversi che hanno portato numeri, dati, indicazioni precise al policy maker. Per farlo, però occorre essere molto concreti, proprio perché dietro a quelle policystanno temi che interessano tutti, indipendentemente dalla vicinanza che si possa avere con la vita politica del Paese.

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