Il passaggio generazionale è un tema centrale nello scenario industriale italiano e interessa anche le fondazioni in rapporto al mondo dell’impresa. Alcuni studi recenti evidenziano dati su cui riflettere e, per certi versi, allarmanti. Due terzi delle imprese con un fatturato superiore ai 20 mln di euro sono familiari: molti dei loro Ceo sono ultrasettantenni e i manager quarantenni sono ancora quasi una rarità. Poche di queste aziende sembrano quindi pronte ad affrontare il fatidico momento del passaggio generazionale, senza conseguenze sul loro assetto manageriale o proprietario. Questo trend preoccupante si è nettamente acuito negli ultimi dieci anni.
La vulnerabilità espressa dai dati è confermata dalla cronaca economica. Il sistema Italia ha subìto alcuni dei suoi colpi peggiori proprio nei momenti di transizione generazionale, quando aziende di primissimo piano – dal food all’automotive – sono passate in mani estere, seppur con modalità e storie diverse. Stesso destino è toccato a molti dei marchi e delle imprese più celebri del settore della moda, fiore all’occhiello del Made in Italy.
I capitali e gli investimenti dall’estero restano certamente un punto fondamentale nella politica economica di un Paese. L’integrazione economica e finanziaria è un pilastro irrinunciabile, positivo e vitale dell’Unione europea. Tuttavia, questo principio funziona se vale per tutti i Paesi che ne fanno parte e non solo per alcuni. Il trasferimento del controllo e dei dividendi di aziende strategiche, di varie dimensioni e settori, al di fuori dell’Italia ha ripercussioni in termini di distribuzione della ricchezza, di contributo che essa può dare nel tempo al Pil italiano e di prospettive per il tessuto economico e sociale del nostro Paese. La nazionalità del Gruppo proprietario condiziona infatti la destinazione degli investimenti, le priorità e la sensibilità economica e sociale nelle scelte societarie.
Lo spostamento all’estero della proprietà delle imprese, o della sua maggioranza, ha anche evidenti radici demografiche e culturali e viene favorito dalla limitatezza dell’arsenale normativo italiano che non offre, allo stato attuale, armi efficaci e paritetiche che permettano a un’azienda di scegliere come tutelare al meglio il proprio assetto proprietario e manageriale, soprattutto ma non solo, nel momento delicato del passaggio generazionale.
Questi strumenti sono invece presenti in altri Paesi: ad esempio, in Francia esiste un servizio per la tutela degli interessi economici e degli asset strategici dell’economia del Paese contro la minaccia estera, sotto l’egida diretta del ministero dell’Economia; anche la Germania si è dotata di modalità di controllo e prevenzione rispetto a indesiderate acquisizioni estere.
I dati e la cronaca economica mostrano che su questi temi esiste una discrepanza che penalizza l’economia e l’industria italiana, disperdendone il patrimonio materiale e (soprattutto) il capitale umano, fatto di valori, saperi, competenze e professionalità costruiti nel tempo. La ‘dote’ acquisita grazie ad aziende e marchi italiani, ad esempio nel settore della moda, costituisce attualmente un fattore determinante per il successo, anche finanziario, di grandi gruppi esteri. Questa dispersione di prezioso capitale umano impoverisce le prospettive di sviluppo di molte categorie professionali e delle generazioni future.
Una possibile soluzione che potrebbe contribuire a risolvere, o ad arginare questo fenomeno è potenzialmente semplice e a portata di mano. È una soluzione che guarda a strutture di proprietà industriale esistenti in alcuni Paesi all’avanguardia, tra cui la Danimarca, la Germania e i Paesi del Nord Europa. Si tratta delle cosiddette Fondazioni industriali, chiamate anche, a seconda dei casi, ‘Fondazioni Commerciali’ o ‘Fondazioni Azioniste’.
In che cosa consistono? Come il termine ‘fondazione’ suggerisce, i nodi di questa questione si incrociano con quelli di un ambito apparentemente distante, quello della filantropia istituzionale, da sempre pronto a intercettare e a rispondere ai bisogni della collettività e dei territori. Oggi si assiste a una doppia transizione: quella delle fondazioni e, più in generale, del Terzo settore verso logiche e strumenti ‘profit’ (crescita costante dell’impact investing e dell’impresa sociale); e quella delle imprese verso logiche e strumenti ‘no profit’ (crescita costante delle iniziative di CSR e delle fondazioni d’impresa). Queste dinamiche fortunatamente non sono più un fenomeno di nicchia ma un mainstream, una vera e propria ibridazione inarrestabile a livello italiano ed europeo.
Non deve quindi stupire che sia proprio dal mondo delle fondazioni che possano scaturire strumenti e idee per dare una risposta a un problema di politica industriale. Da un’analisi comparativa europea della normativa sulle fondazioni, emerge chiaramente una certa arretratezza della normativa italiana nell’accompagnare questo trend storico di avvicinamento tra profit e no profit. Le fondazioni italiane hanno ancora margini di manovra ridotti nel realizzare attività economiche, nel detenere partecipazioni di maggioranza, nello svolgere attività finanziarie, nel sostenere attività ‘profit’ e (aspetto fondamentale) nel poterlo fare beneficiando di un quadro IVA e fiscale favorevole. Inoltre, l’attuale normativa italiana sulla successione e sulle donazioni rende poco agevole un passaggio di quote di proprietà importanti in mani diverse rispetto a quelle degli eredi legittimari. Tutto questo è in controtendenza rispetto a quanto avviene in altri Paesi europei, in particolare in quelli più competitivi che adottano il cosiddetto modello delle Fondazioni industriali.
Il modello delle Fondazioni industriali risponde a molti bisogni. Le Fondazioni Industriali sono entità giuridiche autonome con una finalità industriale ed economica (detengono e gestiscono attivamente la quota di maggioranza di una società), sociale e filantropica (redistribuiscono interamente gli utili in azioni di utilità sociale). Il loro statuto, il loro scopo e le loro modalità di funzionamento vengono definiti al momento della fondazione, con la possibilità di assicurare la presenza di fondatori ed eredi negli organi direttivi. Non hanno ‘proprietari’ o ‘azionisti’, se non il loro scopo sociale. Sono (per loro natura) istituti inalienabili e non cedibili. Adottano una visione imprenditoriale di lungo periodo e assicurano una gestione stabile, lungimirante e attenta ai loro territori di appartenenza. Innovano e investono in ricerca e sviluppo. Generano fatturati, attivi e rendite del capitale mediamente superiori a quelli delle forme di proprietà industriale classiche.
Questa performance, sostenuta da evidenze e studi, non può che inserirsi positivamente nel nostro tessuto industriale. Un caso di spicco nel panorama italiano, ad esempio, che si distingue per la coerenza delle sue scelte, è quello di Almo Nature, società in cui il 100% dei diritti di proprietà e di voto è stato inderogabilmente ceduto a una fondazione (Fondazione Capellino); una scelta coraggiosa che rende lo scopo sociale della fondazione (la salvaguardia della biodiversità) l’autentico driver strategico dell’impresa. Impresa che resta, per gli altri aspetti, una realtà economica di spicco e pienamente operante con logiche di mercato. Si tratta però di un caso quasi unico, realizzato con caparbietà e spirito volontaristico, pur in assenza di una normativa specifica e di qualsiasi forma d’incentivazione.
In Danimarca le imprese detenute da fondazioni industriali pesano invece per due terzi della capitalizzazione di borsa; creano il 13% del giro d’affari, il 15% del valore aggiunto, il 26% delle esportazioni e il 6% dei posti di lavoro del Paese. Tra i volti di questo sistema si individuano alcune delle più grandi imprese europee: Carlsberg, Lego e Novo Nordisk in Danimarca; Bosch, Henkel e Bmw in Germania; Electrolux e Ikea in Svezia; Jacobs in Svizzera; per citarne soltanto alcune.
In Danimarca c’è una normativa specifica, che distingue le Fondazioni Industriali (erhvervsfondsloven) da altri tipi di Fondazioni (fondsloven). Questa soluzione, dotata di due ambiti di regole distinti, può essere particolarmente interessante per l’Italia in quanto introdurrebbe una nuova categoria di fondazione (e una nuova formula di proprietà industriale) senza richiedere una revisione globale dell’insieme di regole relative alle fondazioni o al Terzo Settore.
Per risolvere un evidente problema di politica industriale, occorrerebbe dunque riflettere su un processo di riforma relativamente pratico e semplice, che guardi ai casi di successo di altri Paesi e che dia agli imprenditori del sistema Italia – o Made in Italy che dir si voglia – un nuovo strumento per salvaguardare l’integrità del loro lavoro nell’ottica di un sano e sostenibile capitalismo sociale, che richiede ugualmente un rapido adattamento delle regole del gioco e di mind set di non poco conto.
* Segretario generale Fondazione CRT, past president di European foundation centre a Bruxelles