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Tech transfer all’italiana

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Velasco25 Articolo

L’ultimo Rapporto Netval 2024 parla chiaro: i conti ancora non tornano nel tech transfer in Italia. Nel 2022 i costi (certi) di mantenimento dei brevetti di proprietà di Università e EPR (Enti Pubblici di Ricerca) sono stati di 5,9 mln di euro e i ricavi (incerti) da royalties di licenze 5,7 mln di euro. È poco, troppo poco considerando gli 8.821 brevetti in portafoglio in 69 Università.

Certo, si può obiettare che persino negli Stati Uniti la vera missione degli Uffici di trasferimento tecnologico delle Università non è generare vil pecunia ma di assicurare che le scoperte scientifiche e i risultati della ricerca generino benefici alla società e ai cittadini. Però le Università americane (dati 2021) hanno generato dalle licenze circa 3 mld di dollari di royalty (che essendo calcolate al 2% annuo rappresentano un valore di 150 mld di dollari del patrimonio di proprietà intellettuale).

Ma no, naturalmente non si vuole qui comparare l’Italia ai grandi Paesi protagonisti del tech transfer: per carità, sono contesti diversi. Tuttavia, se da un lato i conti per la valorizzazione della proprietà intellettuale e gli introiti da licenze non tornano, dall’altro, se guardiamo ai servizi, le università italiane non sono messe così male: nel 2022 hanno venduto 1,5 mld di euro di servizi a privati di cui 797 milioni da servizi tecnici e 500 milioni in formazione tecnica. Un numero di tutto rispetto: sono i ricavi della nostra gloriosa Ferrari, quotata in Borsa. Ma è chiaro che se le nostre università sono una rossa Ferrari nella vendita dei servizi, sono invece un medio supermercato di provincia nella vendita di licenze.

Sì, la vendita dei servizi funziona perché le imprese italiane – quelle serie e che guardano lontano – lavorano con i nostri atenei: ne hanno bisogno per i test, per la prototipazione, per reclutare i migliori dottorandi, per assegnare commesse di ricerca applicata anche se talvolta la titolarità dei risultati resta sospesa in una terra di nessuno in cui i contenziosi non mancano. E funziona soprattutto perché non mancano contributi pubblici per le Pmi sotto forma di grant per la ricerca applicata. Ma la vendita di servizi – pur meritoria – non è trasferimento tecnologico e comunque non è la modalità principale per valorizzare la nostra scienza e la tecnologia nazionale a chi è in grado di trasformarla in ricchezza e impatto sociale.

In realtà questa situazione non è nuova: da anni le università generano significativi ricavi dai servizi e scarsi introiti dalla vendita di licenze o di equity, basta leggere i rapporti Netval di 10 anni fa o di 15 anni fa. Nulla di nuovo sotto il sole e allora occorre chiedersi: perché l’eccellenza italiana nella ricerca scientifica, nell’ingegneria, nell’AI, nei nuovi materiali non genera ricchezza economica attraverso la generazione e la cessione della proprietà intellettuale?

Cosa manca agli Uffici di trasferimento tecnologico (Utt) delle università italiane per fare la corsa più lunga, per generare benefici alla società e ai cittadini attraverso i nuovi proventi che potrebbero permettere a un maggior numero di meno abbienti di accedere all’istruzione o per attrarre talenti da tutto il mondo nel nostro sistema di ricerca o soprattutto incentivando il ritorno dei “nostri” cervelli? Perché in tutti questi anni non ci si è mai interrogati su cosa occorre fare per modernizzare il tech transfer delle nostre università e renderlo capace di creare valore inventivo trasferibile?

Dobbiamo subito interrogarci su che tipo di valore l’Utt deve offrire: specialisti del mercato in grado di comunicare i progetti realizzabili nel presente, capaci non solo di tutelare ciò che è brevettato ma anche ciò che non è brevettabile e di promuovere le competenze immediatamente disponibili, mostrare le prospettive dei landscape brevettuali. E il tutto, per aiutare le imprese e le startup a crescere e a essere più competitive internazionalmente. Non mancano certo le capacità tecnologiche né la scienza, ma allora cosa manca? È sempre Netval che ci dà la risposta: la ripartizione del tempo del personale ETP degli UTT vede la prevalenza del tempo speso nella protezione della proprietà intellettuale (23%: l’IP sheltering di cui spesso si parla in letteratura per evidenziare che la capacità difensiva della IP deve essere abbinata alla capacità propositiva), mentre il 40% viene dedicato a una serie di attività per spin-off e startup, a finalizzare contratti di ricerca e consulenza e innovazione  con l’industria (e che forse produce quel miliardo e mezzo di euro citato sopra). Nel tempo speso non c’è marketing, non c’è foresight industriale e settoriale, non c’è investimento nella creazione di un portafoglio di progetti e applicazioni – magari accessibile al livello nazionale – per quei 8.821 brevetti. Si, sarebbe utile disporre un portafoglio di brevetti e know-how accessibile a livello nazionale. Uno dei vincoli del tech transfer in Italia è proprio l’eccessivo peso dei silos regionali della conoscenza talvolta chiusi in sé stessi e privi di interesse a creare reti nazionali. Il sistema di trasferimento della conoscenza messo in piedi dal Pnrr (Ecosistemi di innovazione, Partenariati estesi, Centri nazionali per la ricerca) può ancora essere l’occasione per far convivere le competenze regionali con nuovi verticali di eccellenza nazionale scientifica e tecnologica e su questo argomento occorre ritornare.

Ma perché oggi i conti tornino occorrono subito nuove leadership, campioni della conoscenza del mercato e del foresight ma soprattutto una visione “del come fare”. Secondo Netval “se andiamo a vedere dove sono fisicamente collocate le attività di trasferimento tecnologico, per l’80% le troviamo presso le strutture centrali (e.g., Rettorato), mentre per il 14% sono decentralizzate tra i vari dipartimenti. In alcuni casi (6%) si è anche verificata la possibilità di esternalizzare in tutto o in parte le attività di tradizionale competenza degli Utt ad enti terzi controllati da università ed Epr come incubatori, parchi scientifici, aziende in-house e fondazioni. “Sarebbe utile capire cosa è cambiato da quando le attività di tech transfer sono state esternalizzate in quel 6% dei casi: esternalizzate, non privatizzate o – peggio – fuori dal controllo dell’Istituzione universitaria. Speriamo che Netval nel prossimo Rapporto ci dica cosa sta succedendo in quel 6% dei casi. C’è da sperare tuttavia che le cose non vadano così male e – se esternalizzare funziona – estendiamo questa possibilità con nuovi modelli di remunerazione in base ai risultati e proviamo a far diventare vincenti gli Utt delle università creando nuove partnership con il privato o con altri operatori istituzionali. Ma cerchiamo strade nuove che facciano crescere presto il sistema della terza missione legata alla valorizzazione dei nostri brevetti facendola diventare almeno per un po’ la prima missione, perché oggi è quella che richiede finalmente un po’ di attenzione.

 

 

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