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Perché su Commerzbank il nazionalismo tedesco fa male all’Europa

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Velasco25 Articolo

Dalla scalata italiana di Unicredit alla tedesca Commerzbank si può trarre una lezione: l’unione dei capitali è più facile a dirsi che a farsi. Fino a qualche giorno fa, il cancelliere Olaf Scholz la applaudiva, adesso che una banca italiana fa sul serio il politico socialdemocratico, sotto la pressione dei sindacati preoccupati per i licenziamenti, si precipita a scongiurare l’esito di un’operazione finanziaria che in realtà va proprio nel senso illustrato dall’ex premier Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività dell’Europa. Scholz applaude Draghi ma contrasta, nei fatti, i pilastri del Draghi-pensiero: se si accetta il principio della libera circolazione dei capitali (una delle Four Freedoms alla base della costruzione europea) e si condivide l’idea draghiana che sia un bene procedere spediti verso un mercato unico dei capitali per favorire la creazione di “campioni europei” competitivi con il resto del mondo, l’iniziativa di Unicredit andrebbe applaudita.

Com’è noto, la banca italiana ha acquisito per intero la quota del 4,5 percento messa in vendita da Commerzbank, arrivando così ad essere il secondo azionista con il 9 percento del capitale. Al di là della circostanza, non secondaria, che nulla è accaduto all’insaputa del governo tedesco (a Bloomberg tv l’ad di Unicredit Andrea Orcel ha detto che Berlino era “ben consapevole” e che Unicredit era stata trasparente “da tempo” sulle sue intenzioni), resta l’amara constatazione che, a dispetto di una certa retorica liberalizzatrice (in gran voga, per esempio, nel caso delle concessioni balneari sulle spiagge italiane che fanno gola a molti), nei fatti ogni volta che un’impresa italiana si lancia in un’operazione diretta verso Parigi o Berlino, il nazionalismo economico dei nostri vicini innalza muri apparentemente invalicabili. Ai nostri cugini transalpini invece lo shopping in Italia riesce assai meglio.

Il caso Unicredit inoltre è strettamente legato a una carenza strutturale del sistema europeo che ci penalizza anche in ambito tecnologico. Secondo i dati riportati nel rapporto Draghi, più elogiato che praticato, solo quattro delle cinquanta aziende tecnologiche più importanti al mondo sono europee, e solo il 7 percento delle spese globali in R&S nel settore software proviene da player economici europei (contro il 71 percento degli Stati uniti e il 15 percento della Cina). Se l’innovazione è cruciale per ridurre il gap tra Ue, Usa e Pechino, servono anche banche di dimensioni adeguate a finanziare gli investimenti nei settori hi-tech. Se puntiamo ad avere un ecosistema a maggiore tasso di innovazione, dovremmo essere anche favorevoli a un sistema finanziario con banche intese come aziende più grandi, più produttive, più propense all’innovazione. Difendere invece gli istituti finanziari come microregni entro gli angusti confini nazionali mal si accorda con l’obiettivo, tanto strombazzato, di “sovranità tecnologica” in una unione più forte e coesa. Come ha evidenziato Federico Fubini sul Corriere, tra le prime dieci banche al mondo per valore di mercato, quattro sono americane, quattro cinesi, una canadese e un’indiana. Se si allarga lo sguardo alle prime venticinque, compaiono giapponesi, australiane, indonesiane, singaporeane. Ma neanche l’ombra di una banca europea. Eppure la zona euro è la terza economia al mondo. Sono contrasti eloquenti, come quello tra il fare e il dire. Bellissima l’unione bancaria, purché le banche restino a noi.

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