Giuseppe De Rita, presidente e fondatore del Censis, fotografa l’Italia e gli italiani: “Ci mancano desiderio e intimità”.
“Cantore del divenire”. È Giuseppe De Rita a dare la migliore definizione di se stesso. Presidente e fondatore del Censis, interpreta il Paese da oltre 60 anni con la lucidità e lo spirito critico che lo hanno reso un riferimento per chiunque voglia provare a comprendere contraddizioni e cambiamenti della società italiana. Novantadue anni, otto figli e una serie lunghissima di neologismi coniati – uno su tutti ‘mediocrazia’ – De Rita guarda all’anno appena trascorso consegnandoci l’ennesimo spunto per riflettere meglio su quello che siamo. Una società che non riesce più ad andare oltre senza diventare oltranzista. E a cui mancano desiderio e intimità.
Professore, nel rapporto sociale Censis del 2023 si parlava di pochi traguardi raggiunti dalla società italiana in termini di risposta ai mutamenti del nostro tempo. Cosa si può dire alla fine di questo 2024?
Un anno è passato e quello che impressiona è che ci sono alcuni avvenimenti degli ultimi mesi che ci condizionano moltissimo. La dimensione internazionale è sempre più importante di quella domestica: l’Ucraina, il Medio Oriente, le elezioni americane scompongono tutto. È difficile anche trovare le parole giuste per raccontare la società. E questo deriva dalla povertà del dibattito interno. Non c’è più dialettica. L’Italia è sempre stato un Paese in grado di andare oltre – la guerra, il terrorismo, la pandemia – ma serve una crisi per farlo? La struttura psichica della comunità italiana ha dentro di sé il vincolo dell’oltre e lo ha utilizzato per andare incontro a ogni tipo di problema. Oggi però c’è un’altra questione: questa spinta non appartiene più a tutta la comunità, ma a una minoranza. Due esempi su tutti: gli squilibri sociali che non riusciamo a risolvere e che sfociano nell’oltranza della rivolta sociale e le questioni di genere, che stanno andando verso un indistinto oltre. Non siamo più in grado di muoverci insieme. E così non si va oltre, ma si diventa oltranzisti.
Si dice Censis, si legge ‘interpreti del Paese’. Oggi cosa significa interpretare?
Innanzitutto, l’interpretazione è facile se i fenomeni sono forti. Quando sono deboli diventa tutto più complesso. Noi siamo stati grandi interpreti del Paese alla fine degli anni Sessanta, analizzando il ’68, l’autunno caldo, gli scioperi. Ricordo che per il rapporto del ’69 venni accusato addirittura di essere un maoista. Qualche anno dopo, tra il ’70 e ’71, ci concentrammo su un altro grande fenomeno, quello dell’economia sommersa: l’Istat ci definì degli avventurieri dei dati (sorride, ndr). Oggi invece, anche a guardare le dichiarazioni dei leader, non si trova nulla per interpretare. Si fa opinione. E noi siamo sempre stati grandi nemici dell’opinionismo, perché ci interessano le analisi strutturali.
Nel suo ultimo libro autobiografico, ‘Oligarca per caso’, lei parla dell’oligarchia come di uno strumento necessario per il buon funzionamento della società. Perché?
Perché una società complessa come quella italiana vive di poteri orizzontali, non di vertici. L’oligarchia si muove in senso orizzontale e dunque non mi sento male ad essere un oligarca. Anche in un momento in cui si dice che sono tutti dei farabutti e dei padroni del vapore.
Tra i grandi problemi del nostro Paese c’è sicuramente quello della denatalità. A cosa si deve una situazione tanto preoccupante?
Bisogna andare a fondo, all’anima del sistema, per spiegare questa tendenza. Gli elementi su cui ci stiamo concentrando al Censis sono due. Il primo: manca il desiderio. Si tratta di una mancanza a 360 gradi, che si dispiega su tutto, dai consumi alla vita privata, dalla religione alle vacanze. Il secondo: non c’è più intimità, che è poi l’elemento da cui nasce il desiderio. Rispetto alle generazioni precedenti, oggi non ci sono più momenti in cui si sta da soli con l’altra persona. Penetrare l’intimità dell’altro è sempre più difficile. Dire che mancano gli asili nido non serve a niente, non spiega. Il problema è molto più profondo.
Prima di fondare il Censis lei è stato anche allo Svimez. Quanto è imponente il divario Nord – Sud? Pensa si possa parlare ancora di un Paese a due velocità?
Il Mezzogiorno, e i meridionali, hanno una debolezza che è anche un loro merito: il gusto della lentezza. Una lentezza storica. In 50 anni però il Sud è cambiato: c’è una dimensione diversa anche nell’atteggiamento delle persone. Io non riesco a essere pessimista sul Mezzogiorno. Ma forse è solo la valutazione di un vecchio meridionalista che vuole credere a queste cose.
Guerre, crisi ambientale, precariato, inflazione: quanto è difficile per i giovani oggi credere nel futuro?
Da una prospettiva macro, ai giovani mancano traguardi futuri da raggiungere a livello collettivo. Se li si osserva più da vicino, però, emerge qualcosa che prima, penso alla mia generazione e alla mia esperienza personale, non esisteva. I ragazzi oggi contrattano sul loro futuro, specialmente professionale. Mi capita spesso di vederlo anche durante i colloqui al Censis. Oggi mi definisco un cantore del divenire, ma da ragazzo sono scampato fortuitamente dall’essere un esattore dell’Aci (Automobile Club d’Italia, ndr): a quell’età avrei accettato di tutto, perché a casa aspettavano che io mi sistemassi, che avessi un posto. Oggi non è così. I miei nipoti, trentenni, sono dei grandi contrattatori del proprio lavoro. Il problema sta nella dimensione collettiva, quella individuale i giovani la sanno gestire.
Siamo una società felice?
No, e per un motivo molto semplice: la nostra società domanda futuro ma non ottiene risposte. I padri della Chiesa dicevano che le tenebre sono proprio la mancanza di risposte. Come quando si ama qualcuno e si soffre nel non sapere cosa pensa. Oggi le domande rimangono, ci chiediamo cosa faremo in futuro, cosa saremo, che spazi avremo. E chi dovrebbe rispondere pensa a cose diverse, ad esempio a come mantenere il potere. In questo modo come si fa a essere felici? Lo stesso Papa riesce a dare solo risposte sull’esistente, ma la gente domanda una speranza per il domani. Se hai sete, qualcuno deve darti da bere. Questo è il senso profondo della potenziale felicità del futuro. Altrimenti sono tenebre.