Al diamine i “fact checkers”! Tra gli effetti imprevisti del trumpismo si può annoverare la rapida conversione di Mark Zuckerberg, Ceo di Meta (Facebook), nonché proprietario di Instagram e WhatsApp, che, dopo aver consentito per anni la censura dei commenti social per adeguarsi alle richieste dell’amministrazione Biden, adesso si riscopre alfiere del “free speech”, vola a Mar-a-Lago per suggellare l’intesa con il presidente eletto (la donazione da un milione di dollari, effettuata da Meta in favore del fondo per l’inaugurazione del second term, avrà certo contribuito a rasserenare il clima con Trump che in passato aveva minacciato Zuckerberg di fargli passare il resto della vita in prigione, sic) e, in un video su Facebook, lo stesso Zuckerberg annuncia il nuovo corso: “E’ tempo di tornare alle nostre origini. Intercetteremo meno contenuti ma ridurremo anche il numero di post e account di persone innocenti che rimuoviamo per errore”.
Per la prima volta, il fondatore della piattaforma social più popolare del mondo ammette che l’introduzione, nel 2016, del “fact-checking” affidato a società e organizzazioni terze non ha dato gli effetti sperati. Come prevedibile, la “moderazione” affidata a enti terzi, asseritamente “indipendenti”, si è trasformata in un discutibilissimo strumento di filtro dei contenuti postati dagli utenti. Finalmente ci si è resi conto che un sistema così congeniato, con un controllo top down affidato a una cerchia di “custodi” intoccabili, non poteva funzionare: in una democrazia il controllo delle informazioni avviene in modo disintermediato e partecipato, attraverso il confronto e lo scontro delle idee, non delegando a un tribunale morale, inevitabilmente soggetto a condizionamenti e influenze esterne. Ognuno di noi legge ciò che accade attraverso le proprie lenti, non esiste un punto di vista terzo e obiettivo sul mondo: un fatto è tale perché è stato “fatto”. La neutralità delle informazioni è una chimera, l’idea dei moderatori “unbiased” un’assoluta follia. Per vivere bene, basta esserne consapevoli e usare spirito critico attraverso il confronto con gli altri, appunto. Non per mezzo della censura.
La decisione di Zuckerberg è l’ennesima prova che la campagna contro le cosiddette “fake news”, in questi anni, è stata un’arma impropria per mettere a tacere le voci diverse, estranee al mainstream e allergiche al pensiero unico. La presunta crociata contro la disinformazione è servita a silenziare le opinioni ritenute “scomode” da un pezzo dell’establishment, politico e mediatico. In proposito, il pensiero corre alle ammissioni dello stesso Zuckerberg, contenute nella lettera inviata, la scorsa estate, al Comitato giudiziario della Camera dei rappresentanti degli Stati uniti: il ceo di Meta dichiarava di esser stato “sottoposto a pressioni” dalla Casa Bianca affinché censurasse i contenuti relativi al Coronavirus durante la pandemia e si diceva “rammaricato” per aver assecondato le richieste dell’amministrazione Biden. Nel 2021 Facebook ha rimosso più di 20 milioni di post.
Nel nuovo corso Facebook sostituirà il fact-checking con le “community notes”, già impiegate su X, che consentono agli utenti di scrivere note esplicative sotto tweet e video, con l’obiettivo di fornire informazioni aggiuntive e chiarire contenuti ritenuti falsi o inappropriati. È fantastico”, il breve commento di Elon Musk.
Nella svolta a favore del free speech ha certamente contribuito il nuovo capo degli Affari globali di Meta, Joel Kaplan, recentemente subentrato nel ruolo all’ex vicepremier britannico, il liberaldemocratico Nick Clegg. Kaplan, di area repubblicana, è considerato il vero trait d’union tra il cerchio magico trumpiano e Zuckerberg. Non a caso è stato Kaplan a firmato il comunicato stampa con cui l’azienda ha annunciato la novità. A noi utenti non resta che tirare un sospiro di sollievo: almeno sui social network saremo liberi di pensare e scrivere ciò che vogliamo. Anche qualche sciocchezza, chi se ne importa.