Larry Fink è sempre stato il visionario alfiere dell’ineluttabilità dei fattori Esg (Environmental, social and governance), essenziali nel decidere investimenti e politiche aziendali. Peccato che BlackRock, sua diretta emanazione, stavolta torni indietro. Ha appena abbandonato l’alleanza globale di società di gestione che lavorano per raggiungere la neutralità carbonica, la Net Zero Asset Managers Initiative (Nzam), lanciata nel 2021 allo scopo di ridurre l’emissione di Co2.
La decisione di Blackrock segue quella di altri sei grandi del credito. A luglio, l’iniziativa contava più di 325 membri, per un totale di 57,5 trilioni di dollari in asset in gestione. Secondo il sito web del programma sei società hanno abbandonato il programma: Goldman Sachs, Wells Fargo, Citi, Bank of America, Morgan Stanley e JPMorgan Chase. Una ritirata inaspettata di alcuni fondi legati al climate change, complice il nuovo quadro politico con Donald Trump che sta per prendere possesso della Casa Bianca, se non persino la chiusura.
Parlare di impact investing non sembra più né di moda, tanto meno obbligatorio. I più ottimisti sostengono che, dopo un’inevitabile pausa di riflessione, gli investimenti verdi ricominceranno a correre. Ma la maggior parte dei progetti su solare ed eolico sono concentrati in Stati americani a guida repubblicana. Il mercato sarà più forte di ogni revisionismo. Siamo sicuri?
Certo, sono state aspre in questi anni le polemiche su cosa sia effettivamente green, con tentativi di manipolazione, sofisticate tecniche di marketing, report fasulli. La domanda di fondo è sempre stata una: chi controlla dove vanno davvero a finire i soldi chiesti per finalità «economicamente sostenibili»? Per molti anni ognuno ha fatto da sé. Poi è arrivata la Icma – la più grande associazione internazionale del mercato dei capitali – a fissare alcuni punti: le aziende che vogliono il bollino «green» sulle obbligazioni devono indicare i «chiari benefici ambientali» che vogliono ottenere. E i soldi raccolti devono essere tracciati. Serve ormai un parere sul progetto da parte di un soggetto indipendente. Dunque, il greenwashing si è molto attenuato, ma lobby del petrolio la sta vincendo di nuovo. I lavori della Cop 29, conclusi a Baku a novembre, per la seconda volta consecutiva si sono svolti in una capitale dell’oro nero. Ma mentre a Dubai, nell’edizione precedente, sembrava si fosse concordata una graduale uscita dalle fonti fossili, a Baku il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha detto che “il petrolio è un dono di Dio”. Abbandonarlo sarebbe un peccato. Un sacrilegio.
Ma qui la questione è di natura legale. Le banche e i gestori patrimoniali statunitensi stanno affrontando attacchi legali da parte di una dozzina di Stati conservatori, che ritenevano che tali iniziative di gruppo violassero le leggi antitrust, influenzassero lo sviluppo dei combustibili fossili e determinassero un aumento dei prezzi. «La nostra appartenenza a queste organizzazioni ha causato confusione riguardo le pratiche di BlackRock e ci ha sottoposti a indagini legali da parte di vari funzionari pubblici», ha spiegato il gestore in una lettera ai sottoscrittori. Il riferimento è alla citazione in giudizio da parte del Texas e da altri 10 Stati guidati dai repubblicani, secondo cui l’attivismo del gestore ha aumentato i prezzi dell’energia.