Esiste una soluzione alternativa alle solite proposte di regolamentazione delle lobby? Lo abbiamo chiesto al professore Alberto Bitonti, scienziato politico e lecturer presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano.
Abbiamo tutti seguito con interesse le elezioni statunitensi. Il ruolo di Elon Musk ha attirato particolarmente l’attenzione: imprenditore, finanziatore e componente della squadra del presidente eletto Trump. Ciò non apre a un conflitto tra l’interesse del privato e l’interesse pubblico?
L’interesse pubblico è un concetto filosoficamente affascinante, ma insidioso. Credo non sia possibile tenere separati interessi particolari e interesse pubblico, perché il rapporto tra di essi si basa su scelte di valore, politiche, che hanno in ogni caso una portata collettiva.
Ogni programma politico persegue visioni e interessi specifici. La questione dell’accountability mi sembra più promettente dei conflitti di interesse. Su questo entra in gioco la regolazione di lobbying e politica. A tal proposito, avanzerei qualche dubbio sul fatto che gli Stati Uniti siano davvero il modello da seguire.
La trasparenza (su cui gli Usa pongono un forte accento) non è l’unico valore in gioco. Non sono forse altrettanto importanti l’inclusione delle diverse voci presenti in una società all’interno dei processi decisionali e una maggiore accountability dei decisori pubblici rispetto alle decisioni prese?
Ritengo che solo la compresenza di questi tre valori (trasparenza, inclusività e accountability) possa ridefinire il rapporto tra politica e gruppi di interesse nel modo migliore.
In un momento storico di crisi della fiducia verso le istituzioni, come declinare l’accountability dei decisori pubblici?
Ripensando i processi decisionali secondo il modello di una ‘open lobby democracy’ che apra effettivamente l’anticamera (lobby) del potere alla varietà dei soggetti presenti nella società, approfittando del bagaglio di intelligenza collettiva disponibile sulle diverse questioni di policy.
Le stesse audizioni parlamentari andrebbero ripensate all’insegna di una maggiore inclusione, valorizzando il contributo di idee, expertise e istanze di rappresentanza che provengono da soggetti istituzionali, gruppi di interesse ed esperti da coinvolgere in processi deliberativi di co-creazione delle politiche pubbliche.
A partire dai cosiddetti issue network (reti di soggetti accumunati dall’interesse verso una certa issue), è possibile immaginare un confronto continuo, basato sul merito degli argomenti (alla Habermas), con un ‘sano’ conflitto di idee capace di generare proposte più informate e quindi migliori. Non solo nella fase di formulazione delle leggi, ma lungo tutto il ciclo di policy.
A fronte di un processo realmente inclusivo, partecipato e collaborativo, l’accountability del decisore consiste nell’ascoltare i vari punti di vista, dando risposte concrete (e magari obiezioni ragionate), che spieghino chiaramente le ragioni dietro una certa decisione.
Diverse ricerche dimostrano che i politici impegnati su questo guadagnano credibilità e capitale politico, generando fiducia e rafforzando la stessa democrazia.
Parlando di trasparenza e accountability, non si può non considerare la questione del finanziamento della politica.
Un tema cruciale. Finanziare un politico non porta necessariamente a ‘comprare’ l’influenza (che è soggetta a tante altre variabili), bensì a ottenere canali di accesso privilegiato.
Il punto è proprio l’accesso. Se riteniamo ingiusto che chi ha più risorse goda di più accesso (vedi Usa), è necessario: 1. essere consapevoli che, se eliminiamo il finanziamento pubblico, rimane la necessità che la politica reperisca fondi altrove, e 2. affrontare il problema alla radice, costruendo processi decisionali più inclusivi con meno barriere d’ingresso, secondo la filosofia dell’open government (che, come dicevamo, significa non solo più trasparenza ma anche più partecipazione).
Disporre della più ampia gamma di informazioni, prospettive e competenze possibile per affrontare la complessità delle sfide che attendono chi costruisce una politica pubblica (qualsiasi) è un interesse soprattutto dei legislatori.
Ascoltare solo quelli che hanno maggiori risorse porta a decisioni non solo meno eque, ma sostanzialmente sub-ottimali.
Per ‘curare’ i problemi che possono nascere nel rapporto tra lobbying e politica (la possibile influenza di gruppi più forti in virtù della propria forza, non dei propri argomenti) serve quindi più lobbying, non meno!
Si tratta di un cambiamento di paradigma (e di mentalità) quanto mai necessario sulla regolazione.
Come raggiungere questo obiettivo?
La mia proposta di ‘open lobby democracy’ si fonda su tre soluzioni istituzionali già parzialmente esistenti in alcuni contesti, ma che, combinate, potrebbero innescare una rivoluzione copernicana nei rapporti fra decisori pubblici e gruppi di interesse (considerando i decisori, e non i lobbisti, al centro del sistema).
La prima soluzione è un registro degli stakeholder, un elenco ufficiale e aperto di gruppi di interesse (non un albo professionale di lobbisti, cosa molto diversa).
Dove esiste, questo strumento è spesso visto unicamente come un mezzo per garantire trasparenza. Si può ripensarlo anche come strumento di partecipazione, in cui chiunque abbia un contributo qualificato da offrire su un dato tema possa iscriversi.
Tale registro – che in formato digitale, magari centralizzato, sarebbe relativamente semplice da gestire – può essere utilizzato a diversi livelli per individuare rapidamente i soggetti competenti in ogni ambito.
La seconda soluzione è l’organizzazione di una fase deliberativa, un’arena (magari in formato digitale) in cui i diversi gruppi, selezionati attraverso il registro, possano confrontarsi con i decisori e fra loro, discutendo nel merito delle questioni.
La terza soluzione è la cosiddetta ‘policy footprint’: un documento ufficiale nel quale i decisori rendicontino il processo attraverso il quale si è giunti alla decisione finale, menzionando le diverse posizioni dei soggetti partecipanti alla fase deliberativa e le ragioni per cui alcune proposte sono state accolte o respinte.
Anche chi non vede accolte le proprie istanze saprebbe di essere stato ascoltato, e tutti potrebbero valutare meglio le motivazioni della scelta finale.
Combinando queste tre soluzioni, è possibile favorire un processo più trasparente, inclusivo e improntato al merito degli argomenti, senza alterare le fondamenta della democrazia rappresentativa.
I decisori manterrebbero, infatti, il proprio ruolo, ma in un contesto di maggiore apertura. Integrare questi elementi istituzionali può essere un modo concreto di realizzare una ‘open lobby democracy’, migliorando la qualità delle decisioni pubbliche e della stessa democrazia.
Alberto Bitonti
Editor della Palgrave Encyclopedia of Interest Groups, Lobbying and Public Affairs e autore di diversi articoli e libri in ambito internazionale, Alberto Bitonti insegna e fa ricerca su lobbying e public affairs dalla prospettiva della scienza politica, della teoria politica e della comunicazione.