Fiorenza Sarzanini, vicedirettore del Corriere della Sera, raccontando a Fortune Italia la sua carriera lo ripete più volte: il giornalismo è sempre stata la grande passione della sua vita. Dal delitto di via Poma al G8 di Genova, fino all’inchiesta sulla diffusione dei disturbi alimentari tra i minori durante la pandemia, “non è cambiato nulla dell’entusiasmo che avevo all’inizio”.
Anche se, sottolinea la giornalista, mentre una volta il racconto iniziava andando sul posto, oggi “agli articoli manca un po’d’anima, perché facciamo una vita più comoda e meno partecipata”.
Quando ha capito che il giornalismo sarebbe stato la sua strada?
A 14 anni. Mio padre era un giornalista, capo della giudiziaria all’Ansa. Perciò sono sempre stata vicina alla professione: quando lui seguiva una vicenda io scrivevo un pezzo sullo stesso argomento, che poi gli facevo leggere. Andavo ancora a scuola quando, proprio all’Ansa, venne aperto il Dea, l’archivio computerizzato in cui venivano caricate le sintesi dei lanci d’agenzia.
Per fare questo lavoro cercavano giovani ed io fui una di quelli: mi pagavano dieci lire a notizia e imparai tantissimo. Finite le superiori mi iscrissi a Giurisprudenza, ma la mattina continuavo ad accompagnare mio padre in tribunale.
Fu lui, a un certo punto, a invitarmi a fare una scelta: lasciai l’università e iniziai a collaborare con chiunque mi facesse scrivere. In quel periodo avevano aperto i Quartieri del Messaggero e io seguivo piccoli casi di cronaca locale. Ero determinata, scrivevo gli articoli ovunque, anche in macchina.
Per me è sempre stata la passione della vita e lo rimane ancora oggi. Non è cambiato nulla di quell’entusiasmo che avevo all’epoca.
C’è un caso che ricorda particolarmente?
Forse Ustica. Ero molto giovane e avevo avuto la fortuna di conoscere Andrea Purgatori. Ci incontravamo in tribunale, lui era già un grande inviato e mi usava come ‘ragazzina di bottega’: dovevo parlare con gli avvocati o verificare le informazioni.
Ed ero ben felice di farlo per lui a poco più di vent’anni. Tra i miei scoop invece c’è quello su Patrizia D’Addario, la prima persona ad aver deciso di raccontare le feste di Berlusconi. Tutti i casi che ho seguito comunque sono stati importanti.
Nel 1988 è stata assunta al Messaggero e da lì si è occupata di cronaca giudiziaria per molti anni.
Esatto. Nello stesso periodo avevo anche ricevuto una proposta dal Tempo e avrei dovuto firmare il contratto lo stesso pomeriggio in cui poi mi chiamarono dal Messaggero per assumermi. Da lì avrei seguito a lungo la cronaca giudiziaria, quello che ancora oggi ritengo essere forse l’unico settore in cui il giornalista è davvero un tramite tra il lettore e la fonte.
Ricordo che uno dei miei primi casi fu il delitto di via Poma. Noi giornalisti vivevamo in quel palazzo perché allora la cronaca si faceva senza telefonini e senza Internet, stando nei posti.
E in effetti è solo così che si evita il rischio di perdersi qualcosa di importante, quale può essere l’espressione del viso di un politico o il dettaglio di un delitto di nera.
E poi nel 2000 è arrivata al Corriere, dove è vicedirettore, responsabile dell’ufficio di corrispondenza di Roma ed editorialista. Come si è trasformato il suo mestiere?
Adesso faccio sicuramente un lavoro diverso, meno sul campo. E stare sulla cronaca mi manca tantissimo.
Penso però di essere rimasta cronista anche facendo il vicedirettore: la mia formazione in realtà mi facilita, soprattutto nell’accesso e nella verifica delle fonti.
Tutto di questo mestiere si può fare con passione ed entusiasmo.
Quale pensa che sia il cambiamento più radicale avvenuto di recente nel mondo del giornalismo?
Sicuramente quello legato alla tecnologia, che però ha anche aspetti positivi. Il giornalismo online mi piace molto, perché regala la stessa adrenalina che si aveva tanti anni fa lavorando in agenzia: c’è la gara, la voglia di arrivare prima degli altri e di fare lo scoop.
Allo stesso tempo, il nostro lavoro è stato snaturato. A tutti gli articoli manca ormai un po’di anima, perché facciamo una vita più comoda e meno partecipata.
E poi ci sono i social: se sulla carta si fa approfondimento, online si rincorrono i trend della giornata, quello che il lettore cerca.
Non è più il giornalista a fare una selezione di ciò che è importante e questo altera il rapporto stesso con le notizie. A volte sembra di guardare le cose dal buco della serratura.
Il suo ultimo libro, ‘Affamati d’amore’, è un’inchiesta su una malattia del nostro tempo. Ce ne parla?
È un libro che ho scritto con il cuore e che nasce durante la pandemia. Quando coordinavo un approfondimento del Corriere su Covid-19 ho ricevuto infatti un rapporto del Gaslini sull’incidenza dei disturbi alimentari nei minori, che denunciava l’abbassamento dell’età dei malati.
Non uso a caso la parola ‘malati’, perché lo sono stata anch’io a 23 anni e so di cosa si tratta. Quello contenuto nel libro è un lavoro giornalistico di inchiesta: sono andata nelle strutture in cui vengono curati i disturbi alimentari, ho intervistato chi ne soffre e parlato con i medici.
Di solito detesto che il giornalista diventi protagonista di quello che scrive, ma in quel momento ho pensato che potesse essere utile raccontare anche la mia esperienza.
L’anoressia, di cui ho sofferto peraltro in quello che poteva sembrare un periodo molto felice della mia vita, era qualcosa di cui non mi rendevo conto. E siccome le storie che sentivo erano sempre le stesse, ho pensato di testimoniare che da queste cose si può uscire.
Che una volta guariti si può avere una vita bella e magari fare il lavoro che si ama. Nessuno però si salva da solo, serve l’aiuto di medici e professionisti: ecco il messaggio.
Un tema che è stato prima al centro del suo podcast ‘Specchio’.
Per raccontare i risultati del primo lavoro di indagine mi sembrava il mezzo più diretto. I ragazzi si informano passivamente, mentre fanno anche altro: non leggono i giornali, ma ascoltano i podcast.
E infatti ‘Specchio’ ha avuto successo.
Sono stata invitata a parlare nelle scuole, cosa che poi ho continuato a fare presentando il libro, ma soprattutto sono stata contattata da molti genitori che avevano bisogno di essere rassicurati.
“La voce della maggioranza non è garanzia di giustizia” è una frase di Schiller che le sta a cuore. Perché?
I modi per accedere ai fatti oggi sono tantissimi, ma spesso le apparenze sono molto diverse dalla realtà: non per forza se tutti dicono una cosa, quella è vera. Il giornalista che riesce ad andare oltre ciò che dice la maggioranza, cercando il nodo di ogni questione, sicuramente avrà fatto un buon lavoro.