Si chiamano terre rare e si tratta di 17 minerali strategici per la transizione energetica e digitale, lo spazio e la difesa. Ne è ricca la Cina, seguita dagli Stati Uniti e da numerosi paesi africani.
Un fabbisogno tecnologico che si triplicherà entro il 2030 secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e che oggi si regge su instabili equilibri geopolitici a discapito di ambiente e comunità locali.
Il loro nome non deriva di fatto dalla difficoltà di reperimento ma dalla complessità dei processi di estrazione.
Il fabbisogno in crescita delle terre rare
Lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), promezio (Pm), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu), sono solo alcuni dei Rare Earth Elements (REE) le cui proprietà magnetiche e conduttive li rendono indispensabili per innumerevoli tecnologie, dai comuni smartphone ai sofisticati strumenti di aeronautica militare.
Cruciali anche per le batterie delle auto elettriche, le turbine eoliche e i pannelli fotovoltaici. La Cina ne detiene un terzo delle riserve mondiali, e ne produce circa il 60%, gli Stati Uniti del “Drill, Baby Drill” sono il secondo produttore con il 15,5% del totale globale.
E nel 2023, nel nord della Svezia è stato scoperto il giacimento più grande d’Europa. Secondo la Mappa Blu della IEA, la domanda globale di Terre rare crescerà progressivamente raggiungendo nel 2035 quasi 450.000 tonnellate all’anno, rispetto alle circa 200.000 del 2021.
Gli equilibri geopolitici e la Strategia UE
Dietro la corsa alle terre rare, si gioca una partita geopolitica ad alta tensione, con la Cina in posizione dominante, il cosiddetto Occidente alla ricerca di alternative, e i paesi emergenti sempre più decisi a non restare marginali.
Questi ultimi, di fatto, pur essendo ricchi di minerali, non hanno spesso le infrastrutture adeguate per l’estrazione, e ciò implica un rapporto di stretta dipendenza dalle multinazionali straniere.
Cile e Messico sono tra i Paesi che stanno provando a cambiare le regole del gioco, avviando politiche innovative per trasformare direttamente in loco i minerali estratti e così spezzare il modello che li vede relegati a semplici fornitori di materia prima a basso costo, senza un reale sviluppo industriale locale.
L’Unione europea, invece, consapevole della strategicità dei REE, ha adottato una strategia orientata su 3 pilastri: rafforzare la produzione interna, diversificare le forniture e investire in innovazione e sostenibilità.
In base al Critical Raw Materials Act (CRMA) del 2023: almeno il 10% delle Terre rare dovrà essere estratto in Europa, il 40% dovrà essere lavorato localmente e almeno il 15% dovrà provenire dal riciclo entro il 2030.
L’Ue sta inoltre siglando nuove alleanze strategiche con Canada, Australia e diversi paesi africani, così da garantirsi un accesso sicuro alle risorse minerarie. Oltre alla diversificazione delle forniture, Bruxelles punta su un modello più sostenibile.
Il riciclo e l’economia circolare sono al centro degli investimenti: l’obiettivo è recuperare Terre rare dai rifiuti elettronici e industriali, riducendo la necessità di nuove estrazioni.
Parallelamente, si lavora allo sviluppo di materiali alternativi, così da limitare l’uso di Terre rare nei settori tecnologici e industriali.
Infine, l’Ue sta finanziando progetti per sviluppare tecnologie di estrazione più sostenibili, creare hub industriali per la lavorazione dei minerali critici e accelerare la transizione verso soluzioni più indipendenti e resilienti.
Il costo socio-ambientale
Così come altri minerali fondamentali per tech e green, non mancano le sfide di natura ambientale e sociale legate all’estrazione e produzione dei REE.
Tre sono le fasi di estrazione che compromettono gli ecosistemi circostanti le terre rare: la dissoluzione, dove le rocce vengono estratte tramite l’utilizzo di acidi altamente inquinanti; la separazione, ovvero l’isolamento delle singole terre rare volto al loro riutilizzo specifico, e la generazione, processo di ottenimento di un concentrato di ciascuna terra rara.
Gli esperti denunciano inoltre che l’utilizzo di acidi comporta anche il rilascio di sostanze radioattive nocive per l’ambiente e per la salute delle persone. Laghi tossici, contaminazione delle falde acquifere e distruzione di interi habitat naturali sono alcune delle conseguenze più drammatiche dell’estrazione su larga scala.
Le Terre rare inoltre sono spesso estratte in condizioni di sfruttamento umano, tra violazioni dei diritti dei lavoratori e impatti devastanti sulle comunità locali. La crescita della domanda ha portato anche alla proliferazione di attività minerarie illegali, difficili da monitorare e ancora più dannose per le persone e l’ambiente.
Il paradosso è evidente: la transizione ecologica e digitale, che dovrebbe liberarci dai combustibili fossili, rischia di creare nuove dipendenze. Se oggi il mondo è ostaggio di gas e petrolio, domani potrebbe esserlo del neodimio, del disprosio o del terbio, controllati da pochi attori globali.
La corsa alle terre rare non è solo una questione di tecnologia e innovazione, ma anche di giustizia sociale e sostenibilità reale. La sfida sarà garantire una transizione che non replichi gli stessi schemi di sfruttamento che per decenni hanno caratterizzato il settore energetico tradizionale.