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Dazi, Scordamaglia (Filiera Italia): “No a escalation commerciali”

Luigi Scordamaglia sui dazi di Trump.
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Velasco25 Articolo

I dazi di Trump annunciati mercoledì e che dovrebbero diventare effettivi nel decantato, alla Casa Bianca, “giorno della liberazione” del 2 aprile, stanno preoccupando il Vecchio continente e soprattutto le aziende europee leader nel settore dell’automotive, della moda e agroalimentare.

Così la Commissione europea sta considerando di rispondere colpendo prodotti come la soia, la carne bovina, il pollame e il legname. Intanto il Commissario Ue al Commercio, Maroš Šefcovic, tre giorni fa è volato a Washington per incontrare il suo omologo statunitense Howard Lutnick.

In questa situazione complicata, tuttavia, c’è chi ancora ha la lucidità di dire “calma e gesso”, come Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, associazione che sostiene e supporta la crescita del settore agroalimentare italiano.

“Per ora è prematuro fasciarsi la testa, capisco ci sia grande preoccupazione e grande tensione, ma deve esserci grande voglia di negoziare”.

Dottor Scordamaglia, che clima sta sentendo nel settore agroalimentare in queste ore?

Un clima che non è cambiato rispetto a una settimana o dieci giorni fa.

C’è profonda incertezza e preoccupazione, il che è normale poiché quello italiano è il secondo mercato agroalimentare di esportazione negli Stati Uniti con 7,8 miliardi ed è anche quello con una crescita maggiore nel 2024, un balzo del +19% contro una media nel mercato agroalimentare che è cresciuto di circa la metà, attestandosi a un + 8,6%.

La preoccupazione c’è ma Trump è sempre stato molto ondivago in questo senso, passando da eccessi di ostilità a eccessi di pragmatismo, introducendo e sospendendo dazi più volte. Per questo se è legittimo preoccuparsi, per adesso, date queste oscillazioni, ritengo che non occorra avere panico. Ora occorre negoziare. Un buon segnale, in questo senso, è il viaggio del commissario Šefcovic.

Quali sono per ora i volumi delle perdite stimate?

Parliamo di 509 milioni per il vino, 240 per l’olio, 170 per la pasta e 120 per il settore latte-caseario. Ma sono valutazioni fatte con la calcolatrice, io credo che nessuno possa ancora stimare il reale impatto dei dazi.

In questo contesto, ha senso per l’Europa reagire con dei controdazi?

All’Ue, in questo momento, bisogna chiedere di non essere più realista del re. Deve aspettare, valutare ed essere pronta.

Altrimenti il rischio è di ripetere l’errore fatto con i dazi al 50% sul whiskey americano, frutto in realtà di una moratoria che a Bruxelles avevano dimenticato di prorogare, ai quali Trump ha risposto minacciando tariffe del 200% sui vini e liquori europei, andando a colpire paesi come Italia, Francia e Spagna (mentre gli Usa avrebbero potuto colmare rivolgendosi alle importazioni di vini argentini, cileni e australiani), una reazione che ha portato l’Ue a fare marcia indietro.

L’unica soluzione immediatamente percorribile è quella dei negoziati, sperando che Trump entro il 2 aprile torni sui suoi passi.

Se fossero necessarie soluzioni estreme, invece di rispondere colpendo qualche kilo di soia, carne o frumento, bisognerebbe colpire dove fa più male e focalizzarsi sull’economia ‘dematerializzata’, quella che non passa dalle dogane ma dai software che si scaricano su Internet. Le prime dieci aziende americane sono del settore dell’economia digitale.

In questo senso, abbiamo il precedente dell’India che aveva annunciato tassazioni sulle economie digitali, in particolare su quella statunitense, una situazione che ha portato a un disgelo tra i due paesi e alla cessazione di qualsiasi azione tariffaria da parte di Washington.

Trump però vede l’Ue come un competitor più che come un partner. Allora, ha senso negoziare bilateralmente come singoli stati?

In primis, occorre chiarire che qualche problema l’Europa lo ha anche in casa sua.

Davanti alla grande sfida competitiva sull’energia e l’automotive con Cina e Stati Uniti, noi abbiamo voluto fare i primi della classe, smantellando la nostra produzione manifatturiera in nome di una trasformazione verde non efficace, non competitiva e assolutamente non foriera di opportunità ma ideologica e che pone veti contro lo stesso principio di neutralità tecnologica.

Detto ciò, l’Europa deve essere unita nei negoziati, non si può pensare seriamente che a muoversi siano i singoli stati membri. Tuttavia, non è da escludere che Bruxelles possa essere supportata anche dai governi nazionali come quello italiano, che negli Usa godono di una maggiore credibilità, anche per la loro stabilità.

Occorre tenere conto che in fase di dialogo andranno scelti dei settori, per cui l’Italia, ad esempio, sceglierà i settori in cui è più forte. Quindi, occorre che la prima voce sia quella di un’Europa unita, ma che deve essere unita anche dal punto di vista competitivo, senza guerre tra singoli paesi sui costi dell’energia o sulla componentistica.

Qualora i negoziati dovessero concludersi con un nulla di fatto, ci sono mercati alternativi?

Purtroppo, non ci sono mercati sostituibili.

In questi mesi abbiamo lavorato con Sace e con il Governo per sviluppare mercati complementari e abbiamo analizzato quelli di 14 paesi cosiddetti ‘growth’, ossia con maggiori opportunità di crescita, tra cui il Giappone. Ma abbiamo visto che il valore complessivo di esportazione in questi 14 paesi è di 77 miliardi mentre gli Stati Uniti, da soli, valgono 67 miliardi.

E allora come assicurarsi una buona riuscita delle trattative?

Forzando sul buon senso di entrambe le parti, perché a essere danneggiate dai dazi non sarebbero solo le filiere produttive europee ma anche i produttori e i consumatori statunitensi.

Tariffe su prodotti di prima necessità provenienti da Europa, Canada e Messico hanno, come primo risultato, l’esplosione dell’inflazione alimentare (la più difficile da superare), che grava sulle famiglie più povere, impedendo a Trump di ridurre i tassi d’interesse come vorrebbe. Questo rafforzerebbe ulteriormente il dollaro e favorirebbe le importazioni più di quanto non le scoraggerebbero i dazi.

Inoltre a essere penalizzati da eventuali controdazi, come già si è visto con la Cina, sono gli agricoltori del Midwest e del Sud che per il 90% hanno votato Trump, trovandosi bloccati dall’esportazione verso Pechino di carne e commodities agricole.

Per questo Filiera Italia, con Coldiretti ha fatto un appello insieme ai farmers statunitensi riuniti nella Nfu per chiedere di cessare sul nascere qualsiasi guerra commerciale e trovare punti d’incontro: gli Stati Uniti producono commodities mentre noi esportiamo prodotti finiti ad alto valore aggiunto. L’importante è quindi giocare a carte scoperte e creare sinergia.

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