“Bisogna coniugare l’innovazione tecnologica con il giornalismo di qualità”. L’intervista a Maurizio Molinari.
Oltre ad aver diretto due tra i più importanti quotidiani italiani, Maurizio Molinari ha un passato da corrispondente e da inviato in zone di guerra. E proprio di guerra – alle democrazie – parla anche il suo ultimo libro. Oggi editorialista di Repubblica, ci ha consegnato il racconto della sua carriera.
Dopo la laurea in Scienze politiche è diventato giornalista professionista. Era il percorso che aveva sempre immaginato?
In realtà non ho mai scelto consapevolmente il giornalismo. Finito il liceo, sono andato a studiare un anno in Israele all’Università ebraica di Gerusalemme e prima di partire ho chiesto a diverse testate se fossero interessate a ricevere degli articoli. Ero giovanissimo, nessuno mi conosceva, ma la Voce Repubblicana decise di darmi una possibilità. All’epoca il giornale era diretto da Stefano Folli e il responsabile Esteri era Enzo Bianco.
Durante quel periodo di studio, tra l’83 e l’84, mandai quattro pezzi e Folli li pubblicò tutti. Quello più significativo lo scrissi dal Sud Libano sul conflitto in corso in quegli anni: ero riuscito ad entrare nel Paese con un gruppo di giornalisti stranieri, al seguito dell’esercito israeliano. Quando tornai a Roma per finire gli studi, Folli mi propose di entrare in redazione ed accettai d’istinto. E così, ‘on the road’ e in maniera occasionale, è iniziata la mia carriera.
Carriera durante la quale è stato corrispondente da Bruxelles, Gerusalemme-Ramallah e soprattutto New York.
Sì, sono stato negli Stati Uniti per 14 anni. Ho vissuto tra Washington e New York e qui sono nati tutti e quattro i miei figli.
Lavorare in America può essere durissimo e spietato, ma è allo stesso tempo una grande opportunità. La società americana è molto competitiva, ma il suo sistema culturale è inclusivo.
Vivere a lungo negli Usa per me ha significato avere la possibilità di comprendere, studiare e leggere moltissimo. Più di quanto sarebbe avvenuto in Europa.
L’esperienza di un corrispondente in America si basa sulla capacità di apprendere, soprattutto i fatti quando sono e appaiono molto distanti da noi. Come nel caso dell’amministrazione Trump.
Ecco, cosa pensa degli inizi di questo secondo mandato di Trump?
Non c’è dubbio che questa seconda presidenza sia ‘sui generis’ e molto diversa da tutte quelle che abbiamo conosciuto.
Trump non è repubblicano e non ha assolutamente nulla a che vedere con Nixon, Reagan o con i Bush. Il suo movimento esprime un’identità che negli Stati Uniti però esiste ed è contro il Governo federale, contro le tasse, contro i migranti e basata sull’indipendenza da tutto e tutti, dunque sul business.
È l’identità dell’America profonda, che un tempo si chiamava libertaria perché libertari erano coloro che rifiutavano la presenza del Governo federale nella loro vita. Con Trump questa posizione, una volta di estrema minoranza, diventa di maggioranza nel Paese. Ecco la novità dirompente con la quale tutti noi dobbiamo fare i conti. Possiamo essere a favore o contro, ma bisogna anzitutto conoscerla. E comprenderla.
Che impatto avrà sul Medio Oriente la nuova linea di Washington?
L’approccio del presidente degli Stati Uniti è ‘out of the box’, fuori dagli schemi. Trump è un immobiliarista di Manhattan, il mercato immobiliare più competitivo del pianeta. Dunque è un combattente spietato.
Il suo metodo è giocare con tutte le armi possibili, leali e sleali, per immaginare sempre soluzioni che spiazzino la controparte, che poi è una maniera per imporsi e non per cercare un accordo condiviso.
Questa è la sua filosofia, l’arte dell’accordo, come lui stesso la definisce. Con la proposta su Gaza – e quindi con l’idea di trasformare la Striscia nelle Virgin Islands o in Puerto Rico, cioè i territori che gli Stati Uniti possiedono nei Caraibi – Trump sta dicendo: “Voi non siete in grado? Faccio io”.
Il messaggio è brutale. Attenzione però, perché pensare fuori dagli schemi in una regione come il Medio Oriente, bloccata da cento anni di veti incrociati, può produrre degli smottamenti negativi ma anche positivi. La storia ci insegna che sono gli eventi imprevedibili a poter modificare situazioni imprigionate.
Lei era direttore di Repubblica sia quando la Russia ha invaso l’Ucraina sia durante l’attacco del 7 ottobre. Come si racconta la guerra?
Nel corso della mia carriera sono stato inviato anche in zone di guerra: Nord Africa, Balcani, Iraq e, chiaramente, Medio Oriente.
Nel 1992 ero nel Kurdistan iracheno, all’epoca staccato dall’Iraq di Saddam, con i peshmerga curdi. Mi trovai di fronte a una postazione irachena e mi spararono addosso perché avevo commesso l’errore di mettermi un giubbotto bianco: ero convinto che fossero stati gli iracheni. Ho avuto bisogno di due giorni per comprendere che invece l’errore l’aveva commesso un cecchino che stava dall’altra parte, cioè dalla mia. Qual è la lezione di tutto questo? Quando ci si trova in zone di guerra, o a descrivere i conflitti, bisogna accumulare ogni informazione possibile e descrivere la storia in modo da dar sempre voce a tutte le parti. Senza cedere alla tentazione di aver subito compreso ciò che ci circonda. Sono i dubbi, le domande, ad aiutare l’inviato di guerra.
Se la Russia attacca l’Ucraina, è giusto raccontare la difesa degli ucraini, ma bisogna anche raccontare perché Mosca vuole cancellare dalla carta geografica Kiev. È un elemento di conoscenza importante.
Se Hamas fa il pogrom del 7 ottobre, è giusto e doveroso raccontare la sofferenza dei civili israeliani vittime delle violenze, ma bisogna anche raccontare qual è l’ideologia che muove i terroristi. Da dove nasce l’odio feroce che esprimono.
Questo credo che sia l’approccio giornalistico migliore e più corretto, perché aiuta il lettore a comprendere.
Anche la comunicazione istituzionale ormai passa prima per i social. Il giornalismo cosa può fare per mantenere la propria autorevolezza?
I social network servono a dominare la narrativa, in maniera spesso indipendente dalla realtà dei fatti. Ciò che conta è controllare il racconto, che è poi uno dei metodi del mondo di Trump. Questo è il terreno sul quale il presidente Usa incontra Elon Musk.
Grazie ai social, i leader si rivolgono direttamente agli elettori, scavalcando ogni intermediario. A cominciare dai giornali tradizionali. Per preservare la propria professionalità di fronte a una simile sfida, l’unica risposta possibile è coniugare l’innovazione tecnologica con il giornalismo di qualità. Alla sua costruzione ho dedicato molto tempo e molti sforzi, prima a La Stampa e poi a Repubblica.
Il ‘Digital First’, la trasformazione digitale, si basa proprio sulla qualità del vecchio e buon giornalismo. La sola via per difenderlo è confezionare ogni giorno notizie di qualità che nessun altro ha, perché a quel punto tutti sono obbligati a venirti a leggere. E su qualsiasi piattaforma: carta, web, social e le altre che verranno.
Queste notizie hanno però bisogno di essere pagate, chi le consuma deve scegliere di spendere. Anche perché il giornalismo libero e indipendente è quello che può autosostenersi finanziariamente.
Il titolo del suo ultimo libro è ‘La nuova guerra contro le democrazie’. Chi la combatte?
Il libro descrive il mondo nel quale è piombato Trump. Ci sono cinque fronti: Europa orientale, Europa occidentale, Africa, Medio Oriente ed Estremo Oriente. Qui, in sintesi, Russia e Cina – e i loro alleati Iran, Bielorussia e Nord Corea – sono all’offensiva contro le democrazie.
Le autocrazie non possono vincere da un punto di vista militare, perché non hanno la forza economica o militare per riuscirvi, ma possono logorare le democrazie, in difficoltà nell’affrontare lunghi conflitti.
La dinamica è quella di una guerra d’assedio ibrida delle autocrazie alle democrazie. A guidarla sono Putin e Xi con l’intento di modificare a loro favore l’ordine internazionale.
L’America di Biden ha guidato le democrazie nel contrastare tale tentativo. Poi, a libro pubblicato, è arrivato Trump che ha rovesciato la situazione: ora anche l’America vuole cambiare l’equilibrio globale. Ed è iniziata una partita dove Trump compete di fatto con Putin e Xi su questo terreno senza precedenti.
Le democrazie sono a rischio per qualcosa che è insito nella loro stessa definizione.
Esattamente. La grande abilità, soprattutto della Russia, è saper sfruttare le debolezze proprie dei sistemi democratici.
I nostri Paesi sono lacerati dalle divisioni interne e Russia e Cina sono molto abili a usare le nuove tecnologie per moltiplicare lo scompiglio, che è qui un termine chiave.
La teoria con la quale la Russia combatte si chiama infatti ‘teoria dello scompiglio’ ed è stata redatta nel 2013 dal generale Valery Gerasimov, la cui grande abilità è stata di trasformare in elemento di debolezza la maggiore forza dell’Occidente: la libertà d’opinione. Al fine di esaltare le nostre divisioni interne per far implodere le democrazie.
L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia dell’aprile 2025 (numero 3, anno 8)