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Dopo quarant’anni il “buco nell’ozono” è sempre più vicino a chiudersi

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Velasco25 Articolo

Buone notizie per tutti gli scienziati, attivisti e professionisti che, negli ultimi 38 anni, hanno fatto la loro parte per ridurre l’inquinamento e il suo impatto sul Pianeta. Il “buco dell’ozono” si sta richiudendo. A confermarlo sono i dati raccolti e diffusi sulla rivista Nature dal Massachussetts Institute of Technology (Mit) che per le sue misurazioni ha utilizzato il ‘fingerprinting‘, un metodo che proviene dagli studi sul cambiamento climatico e serve a distinguere gli effetti antropici dalle naturali variazioni metereologiche.

I primi avvertimenti della comunità scientifica

Sempre tra le pagine di Nature, più di 50 anni fa (nel 1974), il professore dell’Università della California Frank Sherwood e il suo assistente Mario Molina, hanno messo in guardia sull’utilizzo dei clorofluorocarburi (Cfc), gas capaci di volare verso la stratosfera (il secondo strato dell’atmosfera) e in sua prossimità, rilasciare atomi di cloro in quantità sufficienti a colpire lo strato di ozono che protegge la superficie terrestre dai raggi ultravioletti.

I due docenti, insieme allo scienziato Paul Crutzen, hanno ricevuto nel 1995 il Premio Nobel per la chimica dimostrando come il buco nell’ozono fosse interamente imputabile all’attività umana. I clorofluorocarburi, infatti, sono gas che non esistono in natura ma sono stati brevettati nel 1930 dalla società del settore chimico Dupont inizialmente con il nome di freon.

Nonostante il primo articolo sull’argomento fosse stato pubblicato nel 1974, si è cominciato a parlare del rischio derivante da queste sostanze utilizzate come refrigeranti, solventi e propellenti per bombolette spray, e di “buco dell’ozono” dal 1985, quarant’anni fa.

Il primo maggio di quell’anno Joe Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin (tre scienziati del British Antarctic Survey) hanno pubblicato, sempre su Nature, un articolo in cui hanno dimostrato che lo strato di zono sopra le regioni polari si stava riducendo di anno in anno. A ogni primavera nell’Emisfero australe, il buco nello strato di ozono sopra l’Antartico si allargava sempre di più. Un evento inimmaginabile fino ad allora, al punto che gli stessi scienziati in un primo momento avevano pensato che i loro strumenti fossero difettosi, ma di lì a poco il fenomeno sarebbe diventato evidente a tutta la comunità scientifica e l’utilizzo dei clorofluorocarburi ne sarebbe stato riconosciuto come la causa principale.

Il protocollo di Montreal

Le ricerche sono proseguite, arrivando a evidenziare come sempre più aree della Terra vedessero l’ozono sopra di loro ridursi, rischiando di rimanere prive di questo prezioso strato protettivo con conseguenze nefaste anche per la salute umana. Per questa ragione, il primo settembre del 1987, è stato siglato il protocollo di Montreal con lo scopo di limitare l’uso dei Cfc e di altre sostanze simili.

Cos’è davvero il “buco” e i rischi per la salute

Il “buco dell’ozono”, in realtà, non è un buco vero e proprio dal momento che nessuna parte della stratosfera ne è priva, gli scienziati utilizzano questa metafora per evidenziare come nelle regioni antartiche la concentrazione di ozono sia scesa, negli ultimi anni, sotto la soglia storica delle 220 Unità Dobson.

Lo strato di ozono che ricopre la Terra protegge la vita sul Pianeta da pericolose radiazioni solari dovute ai raggi ultravioletti. I clorofluorocarburi rilasciati nell’atmosfera, interferiscono con questo strato di ozono, scomponendone le molecole e riducendone lo spessore. I relativi pericoli per la salute umana sono tumori della pelle, melanomi, alterazioni del sistema immunitario ed invecchiamento cutaneo.

Il Mit ha potuto raccogliere i dati pubblicati anche grazie a simulazioni atmosferiche e analisi satellitari, evidenziando così un recupero dell’ozono iniziato nel 2005 e che da allora risulta sempre più marcato di anno in anno. Nello studio si sottolinea, inoltre, che se questo ispessimento dello strato di ozono sopra le nostre teste dovesse proseguire fino al 2035, potremmo non assistere a nuovi impoverimenti stagionali dell’ozono nell’area antartica con la conseguente chiusura del “buco”.

 

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