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‘La città proibita’, il nuovo film di Gabriele Mainetti che porta il kung fu a Roma

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Velasco25 Articolo

Gabriele Mainetti torna in sala con ‘La città proibita’, fondendo la cultura cinese e quella romana sotto i portici di piazza Vittorio.

Dopo il sorprendente esordio di ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, presto diventato un cult, e l’ambizioso ‘Freaks Out’, Gabriele Mainetti torna dietro la macchina da presa per ‘La città proibita’. L’ultima fatica del regista romano – una produzione Wildside in collaborazione con PiperFilm e Good Films – è un kung fu movie ambientato all’Esquilino, sotto i portici della cosmopolita piazza Vittorio.

Nella sapiente contaminazione tra registri diversi, Mainetti trova la sua cifra stilistica: “L’arte marziale del cinema di genere si fonde con la commedia all’italiana, fatta di personaggi tragici che si oppongono con vitalità alla tragedia, ridendoci sopra”.

Mei (Yaxi Liu) è un’affascinante e misteriosa ragazza cinese che approda a Roma per mettersi sulle tracce della sorella scomparsa. Il suo destino si incrocerà con quello del giovane cuoco Marcello (Enrico Borello), che porta avanti il ristorante di famiglia tra debiti e difficoltà. I due dovranno fare i conti con nemici spietati, in una battaglia in cui l’amore si fonde ineluttabilmente col desiderio di vendetta.

Mainetti, con ‘La città proibita’ ha dato sfogo al suo amore per le arti marziali.

È vero. Penso che lo scontro fisico rappresenti plasticamente il senso del conflitto che vive l’essere umano. Credo tanto in questo dinamismo. Ci si ammala del cinema d’azione, perché possiede un’enorme forza espressiva. L’azione è alla base del racconto cinematografico.

Perché ha scelto di fondere la cultura cinese con quella romana?

Mi intrigava l’idea di ambientare un film di arti marziali a piazza Vittorio, dove la comunità cinese è molto radicata. In un Paese come il nostro, che spesso percepisce l’altro come una minaccia, mi divertiva che questa cultura arrivasse con grande forza. Ho raccontato la storia d’amore tra un ragazzo e una ragazza e con questa l’unione tra due mondi così distanti. L’arte marziale del cinema di genere si fonde con la commedia all’italiana, che è fatta di personaggi tragici che si oppongono con vitalità alla tragedia, ridendoci sopra. E poi ci sono i gangster che camminano a dieci metri da terra, promettendo morte a destra e a manca. Ma sono gangster decadenti e fragili, segnati dalle ferite inferte dalla vita.

La forza del film sta proprio nella contaminazione tra generi e registri diversi. Come ha lavorato per armonizzare la materia?

Mi ispiro molto alla musica, che è alla base di tutto quello che faccio. Prenda Stravinskij: nell’Uccello di fuoco, ti porta in cielo con i fiati e poi ti ributta a terra coi contrabbassi e i violoncelli. La musica vera fa così e anche il cinema dovrebbe fare la stessa cosa. Non si può confinare il racconto in un solo genere. L’ibridazione tra generi diversi si fa da sempre: basta pensare al cinema di Jackie Chan, Bruce Lee, John Woo e Buster Keaton. La soluzione per me è solo una: studiare tantissimo e armonizzare il racconto attraverso i personaggi. Sono loro che, se costruiti a dovere, conferiscono credibilità alla storia e permettono l’emozione.

Come ha lavorato per rappresentare l’Esquilino?

L’Esquilino è un suk multiculturale. Io l’ho compresso sotto i portici di piazza Vittorio. Lavoro da quelle parti e ho provato a immergermi nella comunità cinese, seppur con grande difficoltà. Ma ho reinventato quegli spazi in modo fiabesco e ipercinematografico. La verità è lo sguardo del regista. Quando selezioni ciò che entra nello schermo, stai sempre operando una scelta. Anche se fai un documentario. La verità assoluta non esiste.

Il suo film è un unicum nel panorama nazionale. C’è spazio per il cinema di genere in Italia?

Credo che la cosa importante sia riuscire a parlare alla gente. Non ci si può limitare a fare rievocazioni del passato in modo nostalgico. Bisogna raccontare il contemporaneo affinché le persone ci si possano rivedere. Altrimenti si fanno prodotti che piacciono solo agli amanti del genere. Non ha senso fare un film se la gente non va al cinema a vederlo.

Che cosa ne pensa dell’intelligenza artificiale applicata al cinema?

Di recente ho letto sui social un post di Paul Schrader, in cui raccontava di aver dato in pasto a ChatGpt una sua vecchia sceneggiatura, ottenendo una versione migliore dell’originale. Penso che gli sceneggiatori avranno un sacco di problemi in futuro. L’AI può fare cose molto fredde, ma buone. Se continueremo a delegare sempre più attività alla tecnologia, le nostre capacità cerebrali finiranno con l’impoverirsi. Fare lo sforzo di cercare una parola sul dizionario non è la stessa cosa che leggerla online. Il cervello non memorizza l’informazione, perché sa che la può sempre raggiungere con un clic. Mi spaventa questo, non che l’AI possa togliermi il lavoro. L’uomo si può reinventare ogni volta, perché è pieno di risorse. Ma non può delegare tutto alle macchine.

L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia dell’aprile 2025 (numero 3, anno 8)

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