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Non solo dazi, Trump vuole dominare col dollaro (ma serve una cripto)

Trump
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Velasco25 Articolo

Quel che è certo è che la guerra dei dazi è solo l’inizio della partita. Da un lato abbiamo gli Stati Uniti come partito della domanda globale, basato su consumi interni, disavanzi commerciali strutturali e attrazione di capitale estero. Dall’altro abbiamo la Cina e l’Europa, in testa la Germania, legati a un modello fondato sul contenimento della domanda interna, sullo sviluppo dell’export e sull’accumulazione di surplus commerciale.

La propensione al consumo negli Stati Uniti d’altronde è stabilmente attorno al 67–68% del Pil, contro meno del 55% in Germania e circa il 38% in Cina.

Partendo da questi numeri possiamo capire perché Donald Trump vuole cambiare gli equilibri: il sistema statunitense sostiene di fatto la domanda globale, anche a debito, e dunque ora il presidente Usa vuole esercitare la sua forza negoziale. I modelli tedesco e cinese, invece, si reggono su salari contenuti, risparmio forzoso e surplus strutturali: sono economie esportatrici non perché producono di più, ma perché consumano meno. Gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno visto aumentare la posizione finanziaria netta, passando da un deficit di 7 a circa 21 trilioni di dollari. Un quarto del Pil mondiale.

Questa esponenziale ascesa del debito nei confronti del resto del mondo è finita sotto la lente di varie amministrazioni e ora i nodi sono venuti al pettine. Gli Usa sanno che il loro ruolo è ancora centrale: per l’egemonia del dollaro che li pone come il perno del sistema dei pagamenti globale e perché sono il Paese leader della ricerca tecnologica. Dunque, il resto del mondo continua ad esportare capitali verso gli Stati Uniti attratti dal combinato disposto di questi due fattori.

Per modificare l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti la strada principale diventa quella di svalutare il dollaro, evitando di perdere l’egemonia della moneta globale ma mantenendo un minimo di presa sul sistema. Sono due forze contrapposte. Se svaluti la moneta rischi di perdere l’egemonia, se invece si creasse una valuta parallela al dollaro fisico, ma a questo legata tramite un adeguato collaterale, il resto del mondo potrebbe usarla senza che la domanda di asset americani venga meno.

Da qui il progetto di promuovere le ‘stablecoin’, che hanno un valore stabile agganciato sempre al dollaro e non sono sottoposte alla fluttuazione come il Bitcoin.

L’emittente di uno stablecoin può cambiarlo in dollari in qualunque momento alla pari – uno a uno – se l’ha venduto alla pari. Come fa? Con i fondi che incassa vendendo stablecoin, l’emittente compra quasi solo titoli di Stato americani, cioè debito pubblico degli Stati Uniti; si comporta in modo tale da disporre di un controvalore stabile a sostegno della criptovaluta che ha emesso. Il problema è che la Fed garantisce in generale il potere d’acquisto del dollaro fisico, ma non è detto che lo faccia per le stablecoin, soprattutto se queste sono prevalentemente utilizzate all’estero. A quel punto l’onere di aggiustamento in caso di crisi di fiducia della stablecoin ricadrebbe sui governi dei Paesi in cui sono utilizzati, che a quel punto dovrebbero salvare i loro sistemi finanziari privi di dollari fisici. Rischi di default sistemici per garantire il debito americano. Ma a quel punto non sono certamente gli Stati Uniti a restare col cerino in mano.

 

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