Nel tempo della “geopolitica economica”, la fiscalità internazionale ha smesso di essere una materia per soli tecnici di settore. È innanzitutto un fattore di tensione tra Stati, un’arena in cui si ridefiniscono e misurano potere, influenza e modelli di sviluppo. In questa prospettiva anche i dazi, da strumenti di riequilibrio commerciale, assumono il significato di veri e propri messaggi di forza. Le imposte sui servizi digitali, nate per recuperare gettito e “riallineare” il luogo di creazione del valore e quello di tassazione, finiscono con il mettere in discussione la mappa del potere e della sovranità politica.
La tassazione delle multinazionali – soprattutto quelle tech – è diventata, quindi, uno dei banchi di prova della tenuta degli equilibri globali. In questo scenario di instabilità, le principali potenze mondiali alternano mosse apparentemente disordinate a scelte che, lette in controluce, rispondono a una logica più ampia, che esula dal contesto puramente tecnico-fiscale.
Gli Stati Uniti, ad esempio, usano la leva impositiva extraterritoriale per colpire i profitti esteri, con il c.d. GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income), un meccanismo introdotto nel 2017 per tassare i redditi delle multinazionali derivanti da intangible localizzati in Paesi a bassa fiscalità. Al tempo stesso, guardando al deficit della propria bilancia commerciale, rinnovano la stagione dei dazi per colpire flussi ritenuti squilibrati o strategicamente sensibili, come dimostrano le recenti misure su prodotti europei (temporaneamente sospese) e cinesi.
Altri Paesi hanno adottato, a fronte degli evidenti squilibri in termini di “sovranità digitale”, imposte unilaterali, come la Digital Services Tax, che colpiscono i ricavi generati nel mercato interno dai colossi della digital economy. Tra questi l’Italia, che l’ha introdotta con la Legge di Bilancio 2019 e poi modificata con la Legge di Bilancio 2025.
In questo stesso scenario si inserisce anche il processo multilaterale attuato in sede OCSE. La strategia complessivamente messa in campo si fonda su un doppio pilastro. Il Pillar 1, ad oggi rimasto sulla carta, è finalizzato ad attribuire ai vari Paesi in cui realizzano il proprio valore, una quota dei profitti globali delle multinazionali digitali, in qualche modo superando la logica fondata sulla nozione classica di stabile organizzazione nota alla fiscalità internazionale.
Invece, il Pillar 2, già adottato in Europa con la Direttiva (UE) 2022/2523, prevede una global minimum tax (GMT) del 15% nei vari Paesi di operatività dei gruppi con fatturato superiore a 750 milioni di euro. L’Italia, in particolare, ha adottato il Pillar 2 con il D.Lgs. n. 209/23, in vigore da gennaio 2024.
Il principio è semplice (anche se l’attuazione che ne è stata data un po’ meno): nessun profitto d’impresa deve sfuggire a una tassazione equa. Se non viene tassato a sufficienza nel Paese dove è prodotto, lo sarà in quello dove ha sede la capogruppo. È la fine (almeno in teoria) dell’utilizzo dei paradisi fiscali da parte dei grandi gruppi.
Negli ultimi mesi, la logica multilaterale che ha ispirato tale processo OCSE in materia di fiscalità internazionale sta però progressivamente indebolendosi. Stati Uniti e Cina, che pure erano stati protagonisti della fase iniziale di negoziazione, stanno assumendo un atteggiamento più defilato e attendista, se non apertamente ostile, rendendone nei fatti impossibile l’implementazione nei tempi e nei modi previsti. L’assenza di reciprocità da parte dei principali player internazionali fa assumere un carattere pressoché autolesionista alla GMT “made in Bruxelles”, per lo più applicata dalla sola UE.
Eppure, questo stallo rappresenta, per l’Europa, un rischio, ma al contempo anche una straordinaria opportunità. Il rischio è evidente: l’assenza di una cornice condivisa e vincolante rischia di legittimare il ritorno a soluzioni unilaterali, frammentando il mercato digitale e accrescendo l’instabilità commerciale.
Ma c’è anche un’opportunità: proprio in questa fase di incertezza, l’Unione Europea può – anzi deve -costruire un modello fiscale moderno, sostenibile e competitivo, capace di affrontare in modo integrato le questioni che oggi ostacolano uno sviluppo equilibrato nel medio periodo: dalla tassazione dei colossi digitali alla razionalizzazione degli incentivi, dalla lotta all’elusione alla promozione di investimenti strategici.
A prescindere dal livello impositivo minimo di cui al Pillar 2, i Paesi europei continuano a applicare regole diverse di determinazione delle basi imponibili, così legittimando una concorrenza tra ordinamenti fiscali. È nota l’esistenza, nel contesto comunitario, di regimi preferenziali, o comunque “asimmetrici“, che non mancano di trasformare la fiscalità in una leva di attrazione distorsiva. Il risultato? Una competizione interna che mina la fiducia reciproca, frammenta il mercato e indebolisce la capacità dell’Unione di agire come attore unitario nello scenario globale.
In effetti, è in questo quadro che la Commissione ha lanciato, già nel 2023, il progetto ‘BEFIT – Business in Europe: Framework for Income Taxation [COM(2023) 532 final]’. Un’architettura nuova, pensata per armonizzare il calcolo della base imponibile delle multinazionali europee, consolidare i loro profitti e distribuirli tra gli Stati membri secondo una formula oggettiva. Il tutto in modo coerente con le regole OCSE, e con l’ambizione di superare i limiti del precedente progetto di ‘Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB) [COM(2011) 121 final e COM(2016) 685 final]’, di fatto mai decollato.
BEFIT non è solo uno strumento di semplificazione amministrativa, è una proposta politica e strategica. Attuare tale progetto significa, infatti, mettere fine alla concorrenza potenzialmente dannosa tra Stati, dare certezze alle imprese, rafforzare il mercato unico e costruire una sovranità fiscale europea. Il tutto nella prospettiva di un player, l’UE, capace di dialogare da pari a pari con Stati Uniti e Cina.
L’aspetto decisivo da focalizzare in questo percorso di riforma è che la fiscalità non deve solo punire gli abusi, bensì premiare gli “investimenti giusti”.
Un’Europa che voglia creare autentico valore non può limitarsi a inseguire su temi quali il costo del capitale o la compressione delle aliquote. Deve anzitutto competere sull’innovazione e la qualità degli investimenti. La leva fiscale deve servire ad attrarre centri di ricerca, algoritmi, intangibili, brevetti, know-how. Più in generale, deve sostenere, in un’ottica sistemica, l’impresa che crea valore, non quella che si sposta per “monetizzare” vantaggi tributari a scapito di altri ordinamenti.
Questa è la sfida da raccogliere: dal fisco come ‘strumento difensivo‘, al fisco come fattore abilitante o acceleratore di una corretta politica industriale. Diversamente, l’Europa rischia di restare al palo, sospesa tra riforme ambiziose ma isolate (come il Pillar 2), progetti ancora incompleti (come il Pillar 1 e il BEFIT) e una economia interna vulnerabile, esposta a destabilizzanti spinte centrifughe.
Il fisco, oggi più che mai, non può essere un tema di pura discussione tecnica, ma deve diventare un ambito nel quale far convivere visioni di respiro strategico. Nello scenario attuale, il multilateralismo su base globale a cui ci siamo abituati negli ultimi anni – ahinoi – assomiglia molto, forse troppo, a un alibi per rinviare le decisioni, tra veti reciproci e scelte tattiche e di limitato respiro. Il tempo che stiamo vivendo, però, è un tempo nuovo in cui riordinare le regole e rilanciare la nostra competitività. L’Europa ha gli strumenti per farlo. Serve solo – ma non è poco – che la politica abbandoni i facili egoismi e scelga convintamente di essere ambiziosa, percorrendo con decisione l’impervia strada delle scelte di lungo termine.