Quando intervistiamo Riccardo Toto, il Dg di Renexia sta per raggiungere Palazzo Piacentini per una riunione presieduta dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con chi ha manifestato interesse a investire nell’area di Taranto. Su quel tavolo Renexia mette numeri importanti: potrà assorbire migliaia degli eventuali esuberi dell’Ex Ilva. Una possibilità aperta dalla costruzione della sua fabbrica di turbine per l’eolico, a sua volta legata, spiega il Dg, alla creazione di una filiera dell’eolico offshore in Italia.
Una creazione che allo stato attuale è molto difficile, dice il Dg: con l’attuale decreto Fer 2 (il provvedimento che regola gli incentivi alle rinnovabili) non si garantisce la nascita di una filiera per l’eolico offshore in Italia. Per questo Toto chiede una revisione.
Acciaio-lavoro-eolico-energia: Toto nell’area dell’Ex Ilva vuole “chiudere il cerchio” con un fabbrica di turbine eoliche nel porto di Taranto grazie all’accordo con i cinesi di Ming Yang e con la costruzione del più grande parco eolico galleggiante del Mediterraneo. In grado di coprire il 3% del fabbisogno nazionale, Med Wind comporterebbe 9 mld di euro di investimento e 1.000 posti di lavoro solo per la costruzione. Per farlo serve la volontà del Governo di includere anche questa tecnologia nel futuro energetico italiano, secondo il Dg.
Senza modifiche al decreto Fer 2 l’eolico offshore in Italia che fine fa?
La filiera non si può costruire.
Il decreto prevede 3,8 Gigawatt per l’eolico offshore al 2028, e recentemente lei ha dichiarato che non è sufficiente per far partire una filiera. Quali altri sono gli elementi essenziali da includere in una ‘revisione’ del decreto?
Attualmente per partecipare alle aste basta la valutazione d’impatto ambientale, mentre l’autorizzazione unica che consente davvero di costruire arriva solo dopo. Così nelle aste entrano anche progetti che non hanno possibilità di essere realizzati, bloccando il processo. Serve una garanzia per gli operatori e l’impegno concreto da parte di chi partecipa alle aste pubbliche, in particolare da chi si aggiudica la tariffa, a investire nel territorio. Se il settore eolico offshore venisse supportato fino a crescere ad almeno 15 gigawatt di capacità installata (ovvero le stime di Terna e Snam, ndr), potremmo generare circa 60 miliardi di euro in investimenti. Questo significherebbe non solo la creazione di migliaia di posti di lavoro, ma anche l’attivazione di un intero ecosistema industriale, coinvolgendo settori come l’automotive e la produzione di acciaio. E l’investimento richiesto agli utenti sarebbe contenuto, stimato in 6-8 euro l’anno (dai 60 attuali legati agli incentivi sulle rinnovabili in scadenza nel 2031, ndr). Prevedendo poi che i parchi offshore non vengano allacciati prima del 2031, si eviterà che gli incentivi si sommino a quelli attuali. Sappiamo che modificare il decreto significherebbe ripassare dall’Europa, ma così l’eolico offshore potrebbe diventare il volano per costruire una filiera industriale solida e duratura, che servirà anche i Paesi del Nord Africa. Intanto per il Piano Mattei abbiamo presentato un progetto per produrre energia rinnovabile onshore in Tunisia.
Parliamo della costruzione di una fabbrica di turbine: anche il ministro Urso ha appoggiato la vostra intesa con la società cinese Ming Yang. In che consiste il progetto?
La nostra strategia non consiste nel portare capitali esteri, bensì nell’importare tecnologie all’avanguardia, come quella offerta da Ming Yang per le turbine eoliche. I capitali della società (già esistente, per ora totalmente in mano a Renexia) saranno a maggioranza italiana (circa il 70%, con una quota di Renexia e il coinvolgimento di altri due player italiani che Toto non rivela, ndr). Il partner industriale cinese, con cui ci sarà il contratto di licenza, avrà una quota di minoranza (intorno al 30%). L’intervento di Ming Yang riguarda il brevetto della turbina, la tecnologia. Vogliamo creare una fabbrica in cui la maggior parte dei componenti provenga dall’Europa e dall’Italia, alimentando così la riconversione di settori in difficoltà, come l’automotive. La fabbrica non sarà un semplice assemblaggio di componenti stranieri, ma un vero polo produttivo che permetterà anche la creazione di posti di lavoro e la crescita di competenze italiane. La manutenzione e il post-vendita saranno affidati a società italiane, e per la sicurezza c’è l’impegno con Leonardo. Con Ming Yang avevamo già stretto un accordo le turbine del progetto di Taranto (Beleolico, il primo parco eolico marino del Mediterraneo inaugurato nel 2022, ndr). Non vorrei esagerare, ma quel progetto lo abbiamo salvato anche grazie a loro, nel momento in cui eravamo rimasti senza fornitore (europeo).
Allarghiamo il focus, collegandoci ai dubbi sull’affidabilità delle rinnovabili riportati al centro dal blackout spagnolo. Quali sfide tecniche si devono affrontare per integrarle nella rete?
Il problema principale deriva dalla natura non programmabile delle rinnovabili, che può creare difficoltà nella gestione della rete. Tuttavia, operatori come Terna hanno già effettuato importanti investimenti nelle tecnologie per stabilizzare la tensione. Oggi esistono soluzioni tecniche, come nuovi inverter, che possono evitare problemi come quelli osservati recentemente in Spagna. Noi stessi abbiamo proposto progetti di sperimentazione con Terna. È fondamentale che anche gli operatori investano in queste tecnologie per svolgere il proprio ruolo nella transizione energetica.
Quale sarà il vostro ruolo nel futuro dell’Ex Ilva?
Il nostro ruolo è chiaro. Il primo punto è sicuramente legato al fatto che, nei nostri piani, la fabbrica delle turbine debba essere collocata a Taranto, in particolar modo nel porto di Taranto. Questo comporterebbe un impiego fino a 3.000 unità lavorative, legate a un investimento nel porto connesso all’eolico offshore. E torniamo sempre ai 15 Gigawatt: per l’eolico offshore corrispondente avremmo bisogno di circa 8 milioni di tonnellate d’acciaio e della relativa carpenteria. Uno strumento utile per rilanciare una zona d’Italia che ha già sofferto molto. Tra l’altro, spostando l’allaccio dell’eolico offshore al 2031-32, la necessità di produzione di acciaio e carpenteria si collocherebbe in un orizzonte temporale coerente con – faccio un esempio – la chiusura degli altiforni, compreso l’altoforno 1. Inoltre, ci sarebbe la bonifica delle aree e l’installazione di forni elettrici, che notoriamente produrrebbero acciaio green e pulito, con impatti ambientali contenuti. Gli stessi forni elettrici sono fortemente energivori e hanno anche bisogno di acqua. Eventuali desalinizzatori hanno bisogno di molta energia. Quindi si chiude il cerchio: facciamo energia rinnovabile, la forniamo all’industria, produciamo acciaio.
Cosa si aspetta dal dialogo con il Mimit e gli interlocutori?
Spero che emerga una volontà comune di abbracciare un nuovo paradigma industriale basato sulle rinnovabili, diverso dal passato. Abbiamo già investito decine di milioni di euro in ricerca e sviluppo (circa 50 milioni). Ci piacerebbe capire se la nostra visione industriale delle rinnovabili in Italia è condivisa e condivisibile. Naturalmente, non siamo noi a decidere. Noi cerchiamo di fare impresa, e cerchiamo di farla in una certa maniera.