Un numero: 721mila. Come le imprese chiamate a confrontarsi (nei prossimi anni) sul tema del passaggio generazionale. Immaginare che chiudano per mancanza di eredi pronti a rilevare l’attività di famiglia equivale a un’ipotesi di “suicidio collettivo” di una generazione etichettata come vittima di un meccanismo infernale che l’ha esclusa dai processi produttivi. Un conto salatissimo che la Storia le sta imponendo, con tutto quello che ne consegue anche in termini migratori.
Se un recente studio ha confermato una diaspora silenziosa di migliaia di giovani italiani verso le economie più avanzate che offrono maggiori occasioni di soddisfazione professionale, colpisce come anche chi sia “baciato” dalla fortuna di avere un lavoro in famiglia ritenga invece non funzionale alla sua esistenza continuare i sacrifici dei propri genitori.
Al primo posto tra le motivazioni alla base di questa fuga dal ritratto “iper-familista” dell’Italia dipinto come preponderante dai sociologi di varia estrazione c’è la pandemia che ha scompaginato i comportamenti individuali.
Siamo di fronte ad un cambiamento sociale di portata inimmaginabile: i giovani “figli di papà” – utilizzando un’accezione negativa ma che sembra fuoriuscire dalla bocca dei loro genitori scoraggiati – sarebbero mal disposti a “sgobbare” nel capannone/laboratorio/fabbrica di famiglia come i loro genitori. Al diavolo le conquiste (soprattutto in termini di consumi) delle famiglie, le loro possibilità di spesa cresciute a dismisura dagli anni rampanti del boom economico. Inoltre, preferiscono sempre più vivere all’estero.
A ciò si aggiunge il declino demografico, spiega un rapporto appena presentato dall’Istat. “Nel complesso delle attività economiche le dinamiche generali della popolazione e il posticipo dell’età pensionabile hanno determinato, tra il 2011 e il 2022, un progressivo invecchiamento degli addetti. Le nostre analisi mostrano anche che circa il 30% delle imprese risulta molto esposto all’invecchiamento della forza lavoro. L’invecchiamento e il rischio del mancato ricambio generazionale sono concentrati nelle piccole imprese, in larga parte di autoimpiego del titolare, scendendo all’1% tra le imprese medie e grandi”, sottolinea il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli.
Un aspetto di rilievo riguarda il ruolo dei giovani qualificati e la capacità delle imprese di innovare e competere, a prescindere dal settore di attività economica.
L’analisi ha evidenziato che, nel 2022, le imprese meno interessate dal fenomeno dell’invecchiamento presentavano una maggior predisposizione all’innovazione e una penetrazione della digitalizzazione più elevata.
E anche l’occupazione e la creazione di nuovi posti di lavoro ha una curvatura anagrafica. L’80% della crescita (285mila unità in più) è dovuta all’aumento degli occupati con 50 anni e oltre. Il dato è legato alla stretta sull’accesso alla pensione che ha trattenuto più a lungo al lavoro ma soprattutto alle tendenze demografiche con i baby boomers e i nati nei primi anni 70, coorti molto più numerose di quelle successive, che hanno superato questa soglia di età.
“L’Italia sta scomparendo. Non per modo di dire, ma per mancanza di persone. I bambini non nascono, il numero degli ultraottantenni supera quello dei bambini sotto i 10 anni, i pochi giovani che ci sono se ne vanno, le famiglie faticano a formarsi. È un intero Paese che sta lentamente spegnendosi, tra l’indifferenza generale e l’illusione che si possa continuare così ancora a lungo”, commenta amaramente Gigi de Palo, presidente della Fondazione per la Natalità.