Donald Trump intende ridisegnare l’ordine globale con un unico slogan, America first. A giudicare dalle reazioni che seguono alle sue intemerate, si può dire che la strategia trumpiana del “shock and awe” stia dando qualche frutto. Nel rimescolamento di ruoli in vista di un nuovo e inedito, balance of power, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping dispensa lezioni di libero mercato: “Il protezionismo non porta da nessuna parte. – ha detto alla vigilia del suo viaggio in Vietnam, Malesia e Cambogia – Una guerra commerciale e una guerra tariffaria non produrranno vincitori. È necessario salvaguardare con forza il sistema commerciale multilaterale, la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali e un ambiente internazionale aperto e cooperativo”.
Pensavamo di averle viste tutte ma il ‘dazismo‘ trumpiano sortisce effetti imprevedibili come l’arringa a favore del free trade da parte del dittatore comunista. Uno scherzo del destino, ancor di più se si considera l’avanzo della bilancia commerciale cinese sia verso Washington che verso l’Europa.
Il Vecchio Continente rischia infatti di essere inondato dalla sovraccapacità produttiva del Paese che negli ultimi vent’anni si è imposto come la “fabbrica del mondo” in barba agli standard minimi di tutela dei lavoratori e dell’ambiente. Mentre Trump minaccia i dazi contro l’Europa per costringerla a schierarsi, o di qua o di là, il presidente Xi, che negli scorsi giorni ha incontrato in un bilaterale il premier spagnolo Pedro Sanchez, si presenta al mondo come una alternativa stabile e affidabile, in opposizione al leader americano che fa tremare le Borse mondiali.
Eppure i problemi sollevati da Trump esistono, non sono dei capricci. È un fatto il disavanzo commerciale degli Usa verso l’Europa, così com’è un fatto l’avanzo cinese sugli Usa. Nei primi tre mesi del 2025, la Cina ha registrato un export in aumento annuo del 4,5 percento verso gli Usa, a dispetto delle tensioni commerciali e dei dazi di Trump saliti al 145 percento ad aprile su tutto il made in China e delle pronte ritorsioni cinesi al 125 percento sui beni made in Usa.
Secondo i dati appena diffusi dall’Amministrazione generale delle Dogane cinese, il surplus di Pechino verso Washington si attesta nello stesso periodo a 76,6 miliardi di dollari, di cui 27,6 miliardi riferiti solo al mese di marzo. Gli Usa sono la prima destinazione dei beni cinesi per singoli Paesi, con spedizioni nel trimestre pari a 115,6 miliardi.
Si comprende allora che Xi, novello paladino del libero mercato, abbia tutto l’interesse a difendere lo status quo. Trump, invece, ha interesse a scuotere il sistema per rovesciarlo e creare equilibri nuovi.
Se volete, siamo alla vigilia di una nuova Yalta in cui nulla sarà come prima. I super dazi contro l’Europa, sospesi per 90 giorni (e sostituiti da una tariffa, più mite, al 10 percento), confermano che l’iniziativa trumpiana non ha l’Europa come primo avversario, ma la Cina.
L’Europa (verso la quale permangono i dazi al 25 percento su acciaio, alluminio e auto) è considerata come un partner un po’discolo, che approfitta della generosità americana nel campo della difesa ma poi, nei fatti, non agevola l’ingresso delle aziende americane nel mercato unico europeo.
Per questa ragione, gli americani si attendono gesti concreti: meno regole, meno burocrazia, maggiori acquisti di gas liquido, una cooperazione rafforzata che consenta anche alle aziende americane di partecipare ai futuri programmi nel campo della difesa e del riarmo.
Negli ultimi anni le politiche del Green deal, tra pannelli fotovoltaici e batterie per le auto elettriche, hanno rafforzato la partnership economica tra Europa e Cina, con ben pochi vantaggi per lo zio Sam. Anzi, alcune iniziative sono apparse come un dito nell’occhio: ad esempio, l’apertura dei porti europei ai fondi cinesi (il Pireo, in Grecia, ceduto alla compagna statale Cosco) e il memorandum per la nuova Via della Seta, sottoscritto dal governo Conte e poi cancellato dalla premier Giorgia Meloni.
Proprio la presidente del Consiglio italiana incontrerà Trump giovedì 17 aprile: parlerà per l’Italia, certo, ma nel quadro di una difficile trattativa che coinvolge l’intera Europa. Probabilmente, Meloni offrirà la propria disponibilità a rivedere il Piano d’azione per il rafforzamento del Partenariato strategico globale Cina-Italia, siglato nel luglio scorso a Pechino.
La formula “zero per zero” si accompagnerà, nel piano della premier, a impegni concreti da parte europea per promuovere la cooperazione economica e nella difesa con le aziende americane. Del resto, l’Italia e l’Europa sono parte della Nato, e senza gli Usa l’Italia è più debole. Sul fronte dei porti, c’è l’impegno a proteggere Trieste dalle mire espansive cinesi, nonché l’azione concreta di un’azienda italiana come Msc che, con BlackRock, sta cercando di sottrarre ai cinesi il controllo del canale di Panama, un pallino di Trump.
Ci sono poi gli investimenti di Leonardo (l’Italia è il primo paese al mondo in grado di produrre F35, oltre gli Usa, e l’unico nel quale verranno formati piloti), ci sono gli investimenti di Pirelli in Georgia, senza scordare che per la prima volta l’Italia potrebbe raggiungere l’obiettivo del 2 percento del Pil investito in difesa.
Sono tasselli di un unico puzzle: nel mondo nuovo immaginato da Trump, non è consentito vivacchiare nel mezzo. Bisogna schierarsi, o di qua o di là.