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Web tax italiana

(di Giuseppe Melis) – E’ ormai evidente che la ricerca di una soluzione al problema della tassazione delle imprese della new economy si presenta tanto urgente quanto complessa. L’economia digitale, in crescita esponenziale, consente infatti di spostare sempre più la produzione di ricchezza dai tradizionali canali a favore di nuove forme organizzative ben più difficili da tassare, determinando rilevanti problemi di gettito e di finanziamento delle spese sociali. L’urgenza è tale che la stessa Unione Europea ha ormai posto il problema tra quelli che richiedono una soluzione assai rapida prima che il modello europeo di stato sociale subisca una crisi irreversibile.
L’urgenza di rinvenire una soluzione si scontra, tuttavia, con numerosi ostacoli.

Innanzitutto, l’economia digitale non rappresenta un fenomeno unitario ma comprende un’ampia varietà di operazioni economiche, comprese quelle svolte da imprese tradizionali che in sé non sono suscettibili di erodere le basi imponibili degli Stati. Questa varietà tipologica da un lato rende difficile rinvenire una soluzione tecnica unitaria; e, dall’altro, richiede un intervento mirato a quei soli soggetti per i quali risulta evidente la sproporzione tra imposte pagate e profitti realizzati, rischiandosi altrimenti di fare di tutt’erba un fascio, ostacolando di fatto la digitalizzazione delle imprese.

In secondo luogo, gli Stati hanno difficoltà a risolvere il problema con provvedimenti unilaterali, come l’esperienza italiana in materia di web tax – frutto di ripetute, eterogenee e sinora inattuate misure – chiaramente dimostra. Essi si sono vincolati nel tempo con trattati internazionali che fanno riferimento a concetti tradizionali rivelatisi idonei ad adattarsi alla nuova realtà economica. Tra tutti, la nozione di “stabile organizzazione”, che richiede una “fisicità” della localizzazione dell’impresa estera nel mercato di sbocco, laddove l’economia digitale consente di realizzare ingenti volumi di fatturato in uno Stato anche in mancanza di mezzi materiali e personali. A ciò si aggiungono i vincoli che hanno origine nei Trattati UE a tutela della libertà di stabilimento, che impediscono discriminazioni e restrizioni.

In terzo luogo, neanche l’azione degli organismi internazionali ha sinora portato a risultati concreti. A livello OCSE, si è inizialmente sottovalutata l’importanza che il fenomeno avrebbe assunto negli anni a venire, come dimostra la soluzione di fare riferimento al server utilizzato per compiere le operazioni, poiché unico elemento caratterizzato dalla ‘fisicità’ della stabile organizzazione. Ma anche recentemente, in sede di progetto Beps finalizzato a contrastare l’erosione fiscale internazionale delle basi imponibili, è mancata una soluzione, ostacolata da veti di vario genere, preferendosi diplomaticamente un generico rinvio al 2020. Problematiche istituzionali non mancano neanche a livello dell’Unione Europea. E’ sufficiente ricordare che la Commissione europea ha contestato a taluni Stati membri di aver favorito con accordi ad hoc i giganti del web in violazione della normativa in materia di aiuti di Stato, con provvedimenti impugnati non solo dalle imprese tenute a restituire le minore imposte pagate ma dagli stessi Stati membri. Insomma, il clima istituzionale a livello delle organizzazioni internazionali non può di certo considerarsi disteso.

Infine, anche a voler introdurre un concetto di stabile organizzazione “aggiornato”, legato alla presenza digitale economica significativa – come proposto, da ultimo, dalla Commissione Europea – o allo sfruttamento di dati del web alla stregua di una miniera o di una cava, non è detto che il gettito degli Stati ne tragga poi davvero un beneficio. I redditi attribuibili alla stabile organizzazione dipendono, infatti, dalle funzioni e dai rischi da essa assunti, i quali, in presenza di processi fortemente automatizzati quali quelli tipici dell’economia digitale, si rivelano di regola esigui, determinando un reddito imponibile a sua volta esiguo.

In questa prospettiva, l’unico rimedio davvero efficace in chiave di gettito sembra essere l’introduzione di un “nuovo” criterio di ripartizione del reddito complessivo tra tutti gli Stati interessati, che valorizzi adeguatamente, ai fini delle imposte sui redditi e non più solo ai fini delle imposte sul consumo, il luogo in cui beni e servizi digitali vengono consumati. Si tratta di prendere atto che cedere beni o servizi digitali con modalità elettroniche non equivale affatto a cedere prodotti ordinari nei modi tradizionali, poiché la rete consente di profilare e catturare il cliente, i cui dati vengono acquisiti attraverso la rete stessa, creando – oltre che un valore derivante dagli stessi dati così acquisiti ed elaborati – un’occasione continua di contatto, di conoscenza di beni e servizi e, pertanto, di conclusione del contratto che la rete tradizionale di vendita non assicura neanche lontanamente. Ed inoltre, la vendita sulla rete si fonda, oltre che sui dati provenienti dagli stessi consumatori, su costose infrastrutture realizzate dallo Stato in cui avviene il consumo, collocando il fenomeno in quella logica del “beneficio” che giustifica, anche sotto il profilo costituzionale, la tassazione dei soggetti non residenti.

Insomma, a fronte di un’urgente necessità di intervento si assiste ad una situazione di sostanziale stallo’, con uno spazio di manovra ridotto sia per gli interventi unilaterali che per quelli sovranazionali. In un’ottica di Realpolitik, tra le due forme di intervento, quella unilaterale è forse l’unica in grado di sbloccare l’impasse: la necessità di arginare efficacemente poco coordinate ma assai insidiose fughe in avanti dei singoli Stati, potrebbe infatti spingere anche gli Stati riluttanti ad accettare una soluzione uniforme, superando i veti che attualmente la impediscono.

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