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Il bilancio (positivo) di 10 anni di smart working

Sono trascorsi dieci anni da quando Arianna Visentini e Stefania Cazzarolli hanno fondato, a Mantova, “Variazioni”, società di consulenza che ha contribuito all’estensione della legge sul Lavoro Agile, approvata nel 2017. In questi dieci anni “Variazioni” ha seguito il percorso verso lo smart working di oltre 300 imprese (tra cui la multinazionale ABB, Sea, Ubi Banca, Banco BPM, Novartis e Tenaris). Arianna Visentini e Stefania Cazzarolli hanno fatto un bilancio di questa prima decade, che hanno festeggiato anche con la pubblicazione del loro primo libro, “Smart Working: mai più senza. Guida pratica per vincere la sfida di un nuovo modo di lavorare”.

Come sono stati questi dieci anni?

Arianna Visentini (AV): “Sono stati intensi. Abbiamo accompagnato una evoluzione del senso del ‘People Management’ che ha portato a una conseguente evoluzione della nostra idea imprenditoriale. Abbiamo messo al centro l’attenzione al benessere delle persone: la loro autonomia è la chiave per ottenere dei risultati. Oggi, dopo dieci anni di lavoro, quella dell’importanza del benessere personale e della libertà individuale al lavoro è una idea sdoganata. E i dati ci confermato che sempre più aziende fanno investimenti in questo senso, perché c’è una correlazione tra l’uso dello smart working e i risultati ottenuti”.

Stefania Cazzarolli (SC): “Quando abbiamo cominciato a lavorare noi su questo tema non c’era una cultura aziendale adeguata. Dovevamo sempre spiegare l’importanza della conciliazione vita-lavoro. E anche il concetto di ‘lavoro da remoto’ era di difficile comprensione per le imprese. C’è anche da dire che la legge del 2017 sul Lavoro Agile ha contribuito moltissimo in questo senso e oggi il trend dell’impiego dello smart working è in crescita in Italia”.

Perché un’azienda dovrebbe scegliere di avere dipendenti smart worker?

AV: “Banalmente, perché le conviene. Perché riduce i costi e ne ha un ritorno economico. E poi perché utilizzare questo strumento impatta positivamente anche sugli stessi lavoratori e sull’ambiente in cui operano. Per esempio, tra il 2015 e il 2019 abbiamo condotto una indagine tra 4200 soggetti e abbiamo scoperto che, in media, i lavoratori agili hanno evitato di percorrere 64 chilometri al giorno (207 al mese e 2487 all’anno) e hanno risparmiato 29 euro ogni giorno (cioè, 94 al mese e 1128 all’anno). Ma non è finita qui: hanno avuto un risparmio anche in termini di tempo, perché hanno “salvato” 89 minuti ogni giorno, per un totale di 291 al mese e 3496 ogni anno). Tempo che hanno potuto reimpiegare in altre attività: il 49%, ad esempio, lo ha trascorso in famiglia, il 26,6% lo ha usato per lavorare, il 19% lo ha utilizzato per attività sportive o altri hobby e, infine, il restante 8,4% lo ha impiegato in altre attività.

Come viene utilizzato oggi lo smart working in Italia?

SC: “Innanzitutto dobbiamo chiarire che la legge del 2017 è una specie di ‘soft law’ all’inglese, cioè non obbliga le aziende a applicare il lavoro agile, ma dà a loro e ai loro dipendenti la possibilità di farlo. E questa è una precisazione molto importante perché implica che, qualunque impresa decida di usare questo strumento, lo fa perché ne è convinta e vuole davvero attuare una trasformazione. In più, questo è uno strumento che si può implementare gradualmente, e anche questo è molto positivo perché ogni realtà può adeguarlo alle proprie esigenze, concordandosi con il lavoratore. Comunque, dall’indagine che abbiamo svolto, è risultato che ad oggi, tra i dipendenti le giornate utilizzate sono 3,26 al mese, a fronte di una media di giorni potenziali di 5,4. In più, c’è una leggera differenza di genere: le donne lo usano di più e solitamente riconoscono che per loro è molto utile. Questo dipende anche da come l’azienda presenta lo smart working: è chiaro che se lo presenti come un qualcosa che serve soprattutto alle mamme, è così che verrà percepito e usato. Ma diciamo che non è la migliore delle presentazioni che se ne possono fare. Per quanto riguarda il management aziendale, invece, l’impiego del lavro agile è più cauto: solo 2,82 giorni al mese. Questo dipende anche dal fatto che c’è ancora la concezione che la presenza fisica in ufficio sia di per sé un elemento importante”.

Sono più i giovani o le fasce d’età più mature a preferire lo smart working?

AV: “Diciamo che il suo utilizzo aumenta all’aumentare dell’età. Sondando tra le realtà che conosciamo, sempre per la nostra indagine, abbiamo in realtà notato un dato piuttosto interessante. E cioè che più uno smart worker è giovane e meno giornate ‘da casa’ utilizza. Per esempio, fino ai 25 anni la media è di un giorno e mezzo al mese; oltre i 56 anni le giornate in smart working diventano quattro al mese. Uno dei motivi è quello che diceva prima la mia collega, e cioè che farsi vedere in ufficio ancora in Italia conta molto. E conta ancora di più tra i giovani, che hanno un po’ questa ‘ansia’ di farsi notare dai loro capi. Però c’è una cosa da dire: i giovani chiedono a gran voce la possibilità di lavorare in smart working. Poi magari non necessariamente lo usano. Però vogliono sapere che, nel caso possa servire loro, ce l’hanno”.

Concludendo: sono o non sono soddisfatte le aziende e i lavoratori che in dieci anni hanno usato il ‘lavoro da casa’?

SC: “Decisamente sì. Anche in questo caso parlano i dati: su una scala da uno a dieci, la media complessiva è di 9. Gli smart worker, nel dettaglio, si dicono soddisfatti 9,5, i manager 8,7 e i colleghi di coloro che a volte lavorano da casa 7,8”

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