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La trasformazione culturale dei Ceo italiani, secondo Capgemini

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Oltre 200mila dipendenti presenti in più di 40 paesi nel mondo, ricavi nel 2018 per 13,2 miliardi di euro. Sono i numeri di Capgemini, che ai servizi di consulenza e tecnologia unisce l’innovazione per consentire ai suoi clienti di orientarsi al meglio nel mondo costantemente in evoluzione del cloud, del digitale e delle piattaforme, forte di 50 anni di esperienza e di una profonda conoscenza degli specifici settori di mercato. In Italia Capgemini conta oltre 3.500 professionisti dislocati su 10 sedi e nel 2019 ha ottenuto per la decima volta la certificazione Top Employers per la gestione del talento. Di digitale e imprenditoria parla Raffaele Guerra, Transformation consulting director di Capgemini in Italia.

 

In che modo la trasformazione digitale sta cambiando alla radice i modelli di business delle aziende?

 

Le tecnologie digitali abilitano una continua innovazione di tutte le variabili di business, a partire dal processo di creazione di prodotto, in cui i clienti sono sempre più parte attiva, alla “servitization” che consiste in una fusione tra prodotti e servizio che diventano sempre più indistinguibili. Ciò comporta una rivoluzione anche nei modelli di pricing. Pensiamo ad esempio ai produttori di pneumatici, che stanno passando dal vendere “gomme” al proporre “km percorsi”. Cambia nei fatti “cosa” si acquista, oltre all’esperienza che il cliente ne fa, e che si evolve continuamente. L’obiettivo è arrivare al singolo cliente, in una logica sempre più personalizzata. A tutto ciò si sommano le modalità di comunicazione e di advertising utilizzando i social, o i canali distributivi o di delivery, sempre più diversificati per anticipare le esigenze di clienti. È già possibile che alcune consegne possano essere effettuate non a casa, ma direttamente nel bagagliaio della propria auto, tramite una one-time-key. Questi scenari implicano che le aziende si muovano all’interno di ecosistemi sempre più sofisticati, dove attori quali fornitori e partner diventino parte integrante del proprio business, sfumando i confini tra i classici settori merceologici. Cambiamo pertanto anche gli scenari competitivi, offrendo grandi opportunità ma ovviamente anche dei rischi.

 

Nella vostra inchiesta “Changing the Game – Il ruolo del CEO nell’era della Digital Disruption” si parla di trasformazione culturale. Quali strategie andrebbero adottate?

 

Sviluppare una cultura dell’innovazione è una priorità per tutte le aziende. Qualunque sia la strategia di business, la sua execution necessita di un profondo coinvolgimento di tutti gli stakeholder, intesi come persone, e il CEO, in quanto primo rappresentate dell’azienda, si trova a giocare un ruolo cruciale come promotore della trasformazione culturale sia all’interno che all’esterno della stessa. In particolare, tutti i CEO che abbiamo coinvolto nel nostro studio, hanno la consapevolezza della necessità di una trasformazione culturale nell’attuale contesto, tuttavia non tutti “si spendono” allo stesso modo. Ci sono quelli che abbiamo definito “Leader” (41%), che hanno deciso di essere personalmente il punto di riferimento delle iniziative di cultural change. Ci sono poi gli “Sponsor” (32%), che preferiscono delegare a uno o più manager questo ruolo, tenendo per sé una posizione più defilata, infine ci sono i “Neutral” (24%), per i quali non è necessario intervenire esplicitamente su iniziative di trasformazione culturale in quanto ritengono che le proprie aziende siano intrinsecamente innovative, e che quindi la cultura evolva di conseguenza. Il rischio in questo caso è di non tenere in considerazione la velocità del cambiamento, non confrontabile ad epoche procedenti. Il nostro studio evidenzia tra l’altro che le aziende cha hanno CEO più attivi come leader dell’innovazione sono anche quelle che già ora massimizzano i ricavi derivanti da prodotti o servizi innovativi.

 

Quale ruolo gioca la formazione nella trasformazione digitale e quanti CEO vi si dedicano attivamente?

 

La formazione, insieme alla comunicazione e all’organizzazione, è ritenuta una priorità dai CEO Italiani, che adottano una serie di pratiche per rimanere aggiornati. Ciò che emerge dalla nostra ricerca è che il processo di acculturamento è sempre più “condiviso”: i CEO scambiamo via web articoli, approfondimenti con la prima linea di management ma anche con le proprie reti social in un processo senza soluzione di continuità. Rilevante è anche l’attenzione dedicata sia ai competitor tradizionali sia ad aziende in settori diversi e complementari che sono sempre più fonte di ispirazione, a conferma di come la trasformazione digitale stia rendendo sempre più sfumati i confini tra i tradizionali settori merceologici. Ultimo elemento, le “Big Tech”, che sono “osservati speciali” in quanto “standard-setter” dell’innovazione digitale.

 

Secondo il presidente di Capgemini Paul Hermelin “il settore digitale è pieno di opportunità”. Qual è la situazione italiana e cosa prevedete per il nuovo decennio alle porte?

 

Noi siamo a fianco ai nostri clienti, le più grandi organizzazioni a livello globale, per aiutarli a cogliere le sfide della trasformazione digitale, sia sotto il profilo strategico e tecnologico ma anche umano, perché il lavoro del futuro, ricco di automazione e AI, richiederà la capacità di creare una connessione emotiva con gli altri, per individuare e risolvere i problemi e per continuare a ridisegnare il futuro in un processo di innovazione continua. Per quanto riguarda l’Italia vediamo un quadro dove accanto ad enormi potenzialità di singole realtà, ci sono anche carenze significative a livello di sistema. Esistono varie ricerche, ma anche elaborazioni della Commissione Europea quali l’indice DESI (Digital Economy and Society Index) dove si evidenzia come l’Italia presenti un ritardo rispetto agli altri paesi in termini di competitività digitale, in particolare per l’implementazione dell’infrastruttura a banda larga e le competenze “digitali” della popolazione. Senza uno sforzo collettivo, che coinvolga sistema didattico, investimenti pubblici e incentivazione continuativa alle aziende perché investano in innovazione, sarà difficile per il nostro Paese giocare sul tavolo dei leader.

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