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Imprese, la confort zone morta in 2 mesi

Uscire dalla propria confort zone, sia per le persone che per imprese, è un passaggio mai scontato, ma l’esperienza che abbiamo vissuto ci ha insegnato come possa essere “distrutta” velocemente e altrettanto velocemente se ne possa creare un’altra: la “new confort zone”.

 

A metà dell’Ottocento Charles Darwin ha dimostrato che sopravvive non il più forte, bensì chi si adatta meglio al cambiamento. La sua teoria funziona per spiegare l’evoluzione delle specie, ma può essere mutuata e applicata ai modelli aziendali, per spiegare come mai alcune realtà fioriscono, mentre altre falliscono.

 

Cambiamento è anche una delle parole chiave che accompagnano da sempre la mia esperienza professionale. Il cambiamento è l’unica costante della vita: è ciò che contraddistingue gli organismi viventi e, per estensione, le organizzazioni vitali. Non solo. È uno dei leitmotiv del mondo di oggi, reso ancor più evidente dalla esperienza appena vissuta.

 

Albert Einstein diceva che l’unico valore del tempo è dato da ciò che noi facciamo mentre passa. La complessità dei fenomeni in cui ci troviamo a vivere oggi determina l’impressione di una continua ed esponenziale accelerazione: personalmente, credo che sia proprio questo l’elemento che meglio definisce la nostra epoca e la definirà sempre più anche nel futuro.

 

Nelle aziende ciò che accelera maggiormente il cambiamento è la contaminazione, che ha la capacità di rivoluzionare i contesti abituali e le consuetudini logistiche. Si tratta di un processo di cambiamento in cui le capacità dei singoli vengono a contatto e si mescolano. Un percorso che porta a migliorare relazioni e competenze, valorizzando al massimo i talenti dei singoli professionisti. Se l’operazione riesce, ci si accorge che, a differenza di quanto succede in matematica, in questa somma, invertendo l’ordine degli addendi, il risultato finale cambia eccome.

 

I singoli ne escono con competenze accresciute e più complete che, messe a fattor comune, costituiscono un’importante base di valore aggiunto per l’azienda. Vincere la resistenza al cambiamento, essere aperti alla contaminazione implica in primo luogo uscire dalla propria confort zone: un passaggio mai scontato. Anche qui, faccio riferimento a una legge che ho imparato alla Wharton School della Pennsylvania. È lì che mi hanno insegnato che il cambiamento avviene solo quando il rapporto tra le forze in campo è il seguente: D(issatisfaction) + V(ision) + F(irst step) > R(esistance).

Significa che, in seno a un’organizzazione, l’insoddisfazione per lo status quo, la capacità di visione che il manager sa offrire, e lo sforzo per fare un primo passo, devono essere maggiori della naturale resistenza al cambiamento a cui ciascuno di noi, in quanto essere umano, tende. Su questo insegnamento, confermato e ribadito in incontri ed esperienze che ho avuto successivamente, ho riflettuto molto. E ho cercato di applicarlo nella mia vita professionale, spesso rivoluzionando i contesti in cui mi sono trovato a operare, per far uscire le persone dalla loro confort zone. Il che richiede, devo dirlo, un po’ di coraggio. E non soltanto da parte del manager che ingenera il cambiamento: anche i singoli professionisti devono avere il coraggio di usare i propri talenti e soprattutto di lottare per farli emergere, cosa quanto mai non scontata.

 

Mediamente, la tendenza (anche qui, umana e comprensibile) è invece quella di sedersi sui propri talenti, e magari lamentarsi perché nessuno li vede. Per metterli a frutto, servono impegno e persistenza. Ma quando ci si riesce, quando si spezza la resistenza al cambiamento, i risultati ripagano ampiamente il dispendio di energia: vince l’individuo, vince il professionista, vince l’azienda.

 

Come si accompagnano le persone fuori dalla loro confort zone? In una mia esperienza professionale, ho scelto di fare leva su due fronti: il modello organizzativo e la logistica degli uffici. Partiamo dal primo. Al mio arrivo in azienda ho trovato ottimi professionisti, manager con grande specializzazione verticale, vale a dire sulla propria, precipua, area di competenza. La prima cosa che ho deciso di fare è stato quella di rimescolare le carte, invertendo i responsabili di diverse aree aziendali.

 

Del resto, lo stadio forse più importante del processo di apprendimento è il sapere di non sapere. In un primo momento, mettere i manager in condizione di dover applicare le proprie notevoli e consolidate competenze in contesti nuovi li ha in parte destabilizzati. In altre parole, si è creata quella fisiologica dissatisfaction propedeutica al cambiamento. La visione proposta e condivisa, unitamente alla volontà del singolo di percorrere il miglio in più, ha fatto il resto: in meno di due mesi, abbiamo iniziato a osservare i primi brillanti risultati.

 

Tra talento e intelligenza emotiva Il percorso è stato supportato e rafforzato anche da un’altra scelta cruciale: la virata, netta e a tutti i livelli, sul concetto di smart office. Via gli uffici chiusi, via i posti assegnati. Via, in altre parole, tutte quelle consuetudini logistiche certo rassicuranti, ma che non incoraggiavano la contaminazione diretta tra persone e idee.

 

Oggi il luogo di lavoro, che abbiamo imparato poter essere non l’ufficio ma anche la casa, il parco, la barca etc deve essere un activity based workplace: dove la funzionalità e la flessibilità sono il cardine della quotidianità aziendale, il cui obiettivo è quello di permettere a chi lavora di esprimere al meglio i propri talenti. Inoltre, essere a contatto diretto e continuo con i colleghi, muoversi in azienda, creare relazioni e dinamiche ogni giorno nuove, predispone ad alimentare e allenare anche un’altra competenza fondamentale: la nostra intelligenza emotiva.

 

Abbiamo detto che il mondo di oggi è complesso, interrelato, accelerato. Ecco: credo che in questo contesto la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri e di gestire efficacemente le emozioni abbia – e sempre di più avrà – un valore e un ruolo accresciuti e centrali. L’intelligenza emotiva è quello strumento privilegiato che ci consente di decifrare i fenomeni di oggi e intercettare quelli di domani. Rappresenta inoltre la competenza o meglio il talento più umano che c’è.

 

In futuro, sempre più spesso demanderemo le attività analitiche e computazionali alle macchine. Ma l’analitica senza l’empatia è zoppa e cieca, e dunque non in grado di farci avanzare.

 

Il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman osservava che in questi anni siamo diventati velocissimi a creare relazioni, ma anche a distruggerle. Ecco: sono convinto che le aziende vincenti siano oggi quelle maggiormente in grado di esaltare gli aspetti di relazione ed emozionali più tipicamente umani.

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