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Il problema della cassa integrazione a lungo termine

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La cassa integrazione a lungo termine può diventare veleno per l’economia. Al momento si naviga a vista per evitare che una persona con lo status di cassaintegrato possa trasformarsi in disoccupato con inevitabili conseguenze sotto l’aspetto occupazionale.

 

A tanti non è sfuggito che la proroga della cassa integrazione da una prima analisi superficiale potrebbe risultare un aspetto positivo, perché consente senza alcun dubbio il sostentamento della famiglia che potrà contare su quell’apporto finanziario temporaneo, alquanto indispensabile per sfamare tutti i componenti del nucleo familiare di appartenenza. Dall’altro lato, senza voler scomodare illustri studiosi della materia, tale scelta a lungo termine “cozza” con il bene di una nazione, perché così facendo si stanno trasformando i costi in consumi quando invece per far ripartire un sistema economico ingessato e statico i costi devono essere tutti necessariamente indirizzati verso la parola investimenti.

 

Questa semplice visione è stata velatamente accennata anche durante lo svolgimento degli Stati generali dove taluni hanno cercato di evidenziare questo aspetto, però nella realtà si sta procedendo nella direzione opposta con inevitabili delusioni per i fautori della ripartenza. Per comprendere meglio i contorni di questa affermazione valga l’esempio di un lavoratore che ricevendo 1000 euro di sussidio ne spenderà altrettanti per acquistare beni di prima necessità. Atto questo che alimenta il consumerismo ma non innesca alcun moltiplicatore economico, cosa che accadrebbe se quei 1000 euro venissero immessi nel circuito aziendale per avviare nuovi investimenti che consentirebbero all’imprenditore di poter meglio pianificare l’attività per una pronta ripresa.

 

Altra considerazione di stampo statistico riguarda i cassaintegrati: formalmente rimangono pur sempre lavoratori in quanto risultano inquadrati come dipendenti, però sotto l’aspetto sostanziale sono degli inoccupati/disoccupati che in caso di mancata ripartenza dell’attività aziendale, cosa probabile se l’imprenditore non è stimolato dal mercato e dalle istituzioni, nel giro di poco potrebbero vedere mutato il proprio status passando in un batter d’occhio da cassa integrati a disoccupati.

 

Generando tra l’altro uno scossone alla tenuta dei conti pubblici a causa dell’insorgere di costi sociali rappresentati dall’assegno di disoccupazione, che è sinonimo, soprattutto quando l’età anagrafica lavorativa è in stato avanzato, di trasformare il già lavoratore in un “panchinaro”: difficilmente potrà annusare l’erba del terreno di gioco poiché in questi frangenti il mercato del lavoro si rivelerà spietato. L’unica alternativa possibile a lungo termine è la pensione, sperando sempre che i contributi a cura dei lavoratori attivi siano sufficienti, nel lungo termine, per garantirne il pagamento.

 

Per evitare che questo accada non resta che pianificare ed investire in costi per investimenti abbandonando l’idea di oneri che sfociano nel solo consumo di beni, perché questo meccanismo nel medio e lungo periodo svilupperà tossine nocive alla salute economica. Durante questa “tempesta” è giusto ripararsi dalla pioggia e dal vento ma al primo raggio di sole bisogna spogliarsi degli indumenti protettivi e pensare a forme alternative che impediscano agli agenti atmosferici di infierire e distruggere ciò che l’uomo ha costruito con enormi sacrifici.

 

Quel fiume di danaro che ci sta arrivando dall’Europa deve essere utilizzato per rafforzare le fondamenta, non serve a nulla spenderli per abbellire ciò che nessuno apprezzerà mai. Al momento se le attività non ripartono a pieno regime i contributi ricevuti dalle aziende, anche quelli sotto forma di fondo perduto, rischiano di trasformarsi in autentici “anestetizzanti” che addormentano gli operatori economici con il rischio di farli passare direttamente dallo stato di torpore al coma profondo.

 

Ogni qual volta si utilizza danaro pubblico che anziché essere indirizzato a settori produttivi viene sprecato per favorire il non lavoro, come è accaduto con il reddito di cittadinanza oppure in parte per la cassa integrazione, è un fendente che rischia di diventare prima o poi mortale per un Paese che ambisce ad essere competitivo e protagonista a livello europeo e mondiale. I consumi possono aumentare anche semplicemente riducendo le aliquote o allargando le esenzioni così com’è accaduto in Germania. Oppure attraverso il rinnovamento tecnologico con l’acquisto di attrezzature mediante il riconoscimento di un credito d’imposta che non riduce il gettito fiscale perché il meccanismo è in grado di autofinanziarsi: chi vende avrà un maggior reddito e dunque maggiori imposte da pagare mentre chi acquista oltre a ricorrere a nuova forza lavoro sarà costretto a trasferire all’Inps oneri previdenziali e all’erario maggiore Irpef e addizionali con buona pace di chi inneggia alla riduzione dei livelli occupazionali, che sarà costretto a farsene una ragione.

 

La strada della modernizzazione del Paese in un contesto di forte contrazione alla crescita, con il PIL in discesa non può che passare per la liberalizzazione dei mercati, a cominciare proprio da quello del lavoro, ma soprattutto attraverso incentivi rivolti ad investire nelle aziende private. Ciò vuol dire che se investo, parte del capitale investito deve essere convertito in crediti d’imposta che generano investimenti e non polverizzano danaro pubblico. Cosa che accade se questo viene erogato vita natural durante in ammortizzatori sociali. L’obiettivo potrà essere raggiunto soltanto mediante attraverso la sottoscrizione di azioni che ne assicurino anche un minimo di rendimento. Al bando chi inneggia un bond con rendimenti costanti senza prospettiva di restituzione del capitale investito, tale strumento è utilissimo per lo Stato ma poco pratico per il risparmiatore che in caso di bisogno non potrà più contare sulla ricchezza accumulata, una eventuale malattia non potrebbe essere affrontata con serenità senza il necessario supporto finanziario. Bisogna lasciare da parte l’idea, un po’ stantia, che lo sviluppo possa essere rilanciato con le grandi opere come è stato annunciato in pompa magna, come ad esempio il ponte sullo Stretto di Messina, questo perché le grandi opere sono ossigeno per la corruzione: meglio non farle, se non strettamente necessarie.

 

Bisogna usare i soldi pubblici per finanziare le riforme che cambiano gli incentivi a investire e a fare ricerca. In sintesi occorre dare più soldi al mondo scolastico se accetta di essere al servizio degli studenti; più soldi al mondo accademico se si pone l’obiettivo di premiare i migliori; investire risorse pubbliche e dare sgravi fiscali alla ricerca e sviluppo, con contratti e gare d’appalto pan-europei; più soldi alle imprese se propongono forme d’investimento per aumentare la propria capacità produttiva; più soldi alla sanità se riesce a rispondere alle esigenze dei malati prima che sia troppo tardi, con riduzione dei tempi di attesa; più soldi alla giustizia se lo stato riesce in tempi rapidi a dare risposte concrete per risolvere piccole e grandi controversie; più soldi alle agenzie fiscali se decidono di utilizzare un metro univoco di verifiche tralasciando le presunzioni che tanto tolgono e poco danno all’equità, costringendo spesso la persona o l’azienda onesta ad arrampicarsi sugli specchi per dimostrare la propria affidabilità e correttezza; più soldi alle società di trasporto pubblico soltanto se la mentalità imprenditoriale è rivolta all’erogazione di servizi efficienti con costi coperti dagli introiti e giammai dalla fiscalità generale.

 

Allo stato attuale l’economia Italiana si presenta con la temperatura troppo alta, perché i pochi passi intrapresi prima che la pandemia prendesse il sopravvento , sono risultati tutti insufficienti. Il confronto con altri Stati tipo Spagna, Finlandia oppure la Francia o la Germania suggerisce che, per rilanciare la crescita, non basta liberalizzare i mercati, tra l’altro ancora chiusi a riccio per via del confinamento coatto pandemico.

 

Valga aggiungere a ciò l’inevitabile diminuzione del flusso turistico straniero che avrà un impatto anche sui settori collaterali, dato che la spesa dei turisti stranieri soprattutto in Italia rappresenta una voce fondamentale non solo per alberghi hotel e strutture ricettive in genere ma anche per ristoranti ed attività commerciali, settori questi che vanno necessariamente rilanciati. Il nostro PIL nazionale è alimentato per oltre il 13% dalla voce turismo ed al momento non vi è nessun piano concreto per rilanciare il settore perché ad esempio il bonus vacanze è dimensionato soltanto per il mercato interno mentre quello estero è affidato alla creatività dei singoli che per attirare i turisti propongono pacchetti a prezzi da saldi con pernottamenti gratis. Dunque questa apocalisse produttiva non può essere arginata semplicemente pagando le persone per rimanere a casa. Non a caso l’ammortizzatore sociale per eccellenza che ha la finalità di cercare di mantenere in vita il lavoro, è stato attivato in primis dai lavoratori del settore turistico che pur in costanza della riapertura delle attività per effetto di un calo fisiologico e scontato della domanda sono comunque rimasti a casa e chissà per quanto tempo pensano di rimanerci, ecco anche questa convinzione deve essere cambiata perché è bello stare a casa ed essere pagati per non lavorare però si tratta pur sempre di una illusione perché il risveglio se non accompagnato da certezze può essere deleterio e paragonato ad un viaggio senza ritorno.

 

Di Gianluca Timpone, commercialista e docente di Economia Politica presso l’Università Europea di Roma.

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