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L’azzardo di Conte sul debito pubblico

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È la trama di un romanzo bellissimo di Osvaldo Soriano, scrittore argentino, disincantato e lucido. Si intitola “Un’ombra ben presto sarai”. Racconta di personaggi improbabili da qualche parte della pampa lungo strade impolverate che non portano da nessuna parte. Gente che vive a tutta velocità nella quotidiana disfatta della loro esistenza. Alla fine, dopo aver perso tutto, senza un soldo in tasca si mettono a giocare a carte. E si giocano quello che gli resta: i ricordi e le illusioni. C’è da immaginarseli, seduti a un tavolo, con un mozzicone di sigaretta in bocca ed un bicchiere di vino in mano. Uno si gioca l’amore che ha travolto la sua vita, l’altro vede e si gioca il ricordo di una giornata di festa di un’infanzia felice. E chi perde, perde il ricordo. Per sempre. E a forza di giocare finiscono anche i ricordi così che cominciano a giocarsi le illusioni che spariscono ancora più in fretta.

 

Chissà perché questa storia mi è tornata in mente quando ho visto Giuseppe Conte, accompagnato da Rocco Casalino, al tavolo europeo in occasione dello storico accordo sul recovery fund e sul bilancio UE 2011-2017. Me lo vedo Conte, protagonista di “Un’ombra ben presto sarai”, con i capelli arruffati e la barba incolta, al tavolo con l’olandese Mark Rutte, la cancelliera tedesca Angela Merkel ed il presidente francese Emmanuel Macron. Che poker. L’italiano ha in testa un cappello di paglia bucato con sopra scritta la cifra del debito pubblico italiano post Covid, tutti gli altri indossano una maglietta azzurra con lo stemma stellato dell’Europa.

 

 

Se è vero che fare debito pubblico trova ragioni e finalità nella gestione dei momenti di crisi come le guerre e le pandemie è pur vero che nel nostro caso si è aggravata una situazione già al limite della sopportabilità. La classifica dei paesi industrializzati più indebitati ci vede infatti al terzo posto dopo il Giappone e la Grecia, Paesi con i quali condividiamo il più basso tasso di crescita economica degli ultimi 20 anni.

 

 

Eppure autorevoli economisti ritengono di non dover demonizzare l’immensità del nostro debito pubblico. Poiché il 70% del debito è nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli di stato mentre solo il 30% riguarda il debito nei confronti di altri Paesi la reale portata del passivo di stato è assai ridotta. Come se avessimo un debito di 100 e un credito di 70. E ti viene quasi da pensare che non siamo messi poi così male. Così provo a convincermene ma non mi riesce. Penso ad un giorno sciagurato in cui dovesse venir meno la fiducia. A quel momento maledetto in cui nessuno deciderà di partecipare alle aste pubbliche per il collocamento dei nostri titoli di stato.

 

 

Mi rimbomba in testa l’idea che la civiltà più evoluta abbia prodotto l’uomo più arretrato della storia. Quello che non si cura di ciò che lascia ai propri figli. Smarrito il senso del legame tra generazioni vaghiamo nella progressiva perdita di profondità temporale. La solidarietà tra generazioni è via via evaporata nel perdurare di un’ottica di breve periodo incoraggiata sempre più dalla rapidità dei cambiamenti sociali e dall’importanza dei desideri e delle illusioni più modeste. Quale democrazia può ritenersi tale senza il legame tra le generazioni? Solo una pseudo-democrazia. Vale a dire una democrazia di comodo, sostenuta non da ragioni etiche ma da interessi personali. Così al lascito dell’enorme debito, da accettare senza il beneficio d’inventario, si aggiunge la responsabilità di aver creato i presupposti per una decrescita economica e culturale.

 

 

Dovremmo cercare di non dimenticare che il benessere in cui viviamo non è irreversibile nonostante il dilagare dell’indifferenza alle cause che lo hanno generato. Ecco perché occorre tornare al più presto a crescere con il buon uso delle risorse disponibili mantenendo la barra dritta verso la priorità assoluta: salvare a tutti i costi il tessuto economico tramite azioni atte a sostenere le imprese. E il modo più efficace resta quello di abbassare la pressione fiscale diminuendo la spesa pubblica primaria nell’ambito di un piano nazionale di investimenti strutturali mirati. Sul piano tributario c’è da fare. Sarebbe auspicabile una riduzione drastica dell’imposta sul reddito d’impresa in caso di mancata distribuzione degli utili, misura idonea a disincentivare la sottrazione di ricchezza dalle imprese a vantaggio della competitività dell’intero sistema.

 

 

E quando l’Italia, ridotte al minimo le politiche assistenziali, finalmente tornerà a crescere si dovrà pensare a destinare l’avanzo alla progressiva diminuzione del debito pubblico. Questo è il tema che risuona nell’aria. Ma il Governo, ostinato, insiste con le nazionalizzazioni in una lotta spietata al neoliberismo.

 

Ed è qui che mi appare il Conte della pampa al tavolo del futuro giocarsi il piatto più importante della partita. L’olandese Rutte non è abituato a quel caldo e gronda, come fosse in un bagno turco all’equatore. La cancelliera prova a fatica a mantenere il contegno che le si addice mentre Emmanuel Macron sfoggia il suo più bel sorriso nonostante gli insetti. Eccolo, con un mozzicone di sigaretta in bocca e un bicchiere di vino in mano. Cambia tre carte. L’olandese ne chiede una, gli atri passano. Conte ha puntato l’ultimo ricordo che gli resta: quello di un paese liberale e democratico. Tira giù tre Kappa. L’olandese, sudatissimo, lascia passare alcuni istanti e poi cala un full di assi. E via, a chiudere.

 

 

Fa caldo da quelle parti, un caldo maledetto. Se perdi anche il ricordo non ti resta che il presente da qualche parte nella pampa lungo strade impolverate che non portano da nessuna parte.

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