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Le Assicurazioni e il capitalismo della sorveglianza

È chiaro che siamo entrati in quella che Shoshana Zuboff chiama nel suo libro ‘The Age for Surveillance Capitalism’: l’età del Capitalismo della ‘Sorveglianza’. Un passaggio che riguarda tutti i settori, Assicurazioni incluse.

 

Ma di cosa si tratta?

 

Il capitalismo della sorveglianza è stato teorizzato dopo lo scoppio della bolla delle dot.com, quando Google, ha cercato di aumentare le entrate pubblicitarie utilizzando il suo accesso esclusivo a una fonte di dati ampiamente ignorati, cioè il “log” lasciato dalle ricerche e dalla navigazione online degli utenti. Google scoprì che questi dati avrebbero potuto essere analizzati in base a modelli predittivi che avrebbero fornito degli indizi decisivi sugli interessi degli utenti. E andò oltre: a questi utenti potevano, infatti, essere indirizzati degli annunci pubblicitari mirati per condizionare i loro comportamenti come consumatori. Google avrebbe potuto così riutilizzare i dati comportamentali “in eccedenza”, rispetto alla normale attività di ricerca, e sviluppare nuovi metodi per procurarsi in modo aggressivo nuove fonti di accesso ad essi.

 

L’esperienza degli utenti è materia prima gratuita che viene trasformata in dati comportamentali e poi venduta come ‘prodotti di previsione’ in un nuovo mercato, quello del commercio dei ‘dati comportamentali a termine’; le nostre menti vengano “sfruttate” per ottenere dati, non solo ma vengono anche influenzate per controllare i comportamenti futuri attraverso i ben noti effetti di contesto o per condizionarli direttamente con le tecnologie (ad esempio bloccando l’auto di chi non paga l’assicurazione).

 

La sua forza deriva non da armi o eserciti ma da un’architettura computazionale di dispositivi intelligenti, di cose (Internet of Things) e spazi tra loro connessi.

 

In tale forma capitalistica non abbiamo un nome, il nome che ci è dato è “utente” (user).

 

“Se è gratuito, tu sei il prodotto”. Ma gli internauti non sono prodotti, piuttosto sono “le fonti” di un valore aggiunto cruciale per il capitalismo di sorveglianza: gli oggetti di un processo di estrazione delle materie prime tecnologicamente avanzato e sempre più inevitabile; sono dei produttori – malgrado loro – di dati. Il prodotto è “il nostro comportamento futuro”, sotto forma di clic, acquisito, online od offline, dalle aziende che lo acquistano e lo vendono, lo scambiano su nuovi mercati. Google Maps è stato per Google il punto di ingresso o meglio l’atto di concepimento di questa nuova forma capitalistica. La storia della costruzione di questo oggetto sin dal suo inizio, della protesta locale destata qua e là dalle famose macchinette di Google Street View che fotografano ogni strada, fino al gioco Pokemon Go.

 

Con Street View, Google si appropria di tutto lo spazio pubblico, senza chiedere nulla. C’è poi Pokemon Go, dove si crede di cacciare dei Pokemon nel proprio quartiere mentre in realtà si è spinti verso una destinazione precisa. Il giocatore, infatti, non sa che questa o quella insegna ha pagato affinché il gioco diriga i suoi passi sino al suo negozio, il che è una grande differenza con la pubblicità tradizionale, visibile, evidente e talvolta regolamentata (ho avuto occasione di conoscere nel 2014 John Henke, il padre di Google Maps e Pokemon Go, e dalle sue parole traspariva una passione e una determinazione fuori dal comune).

 

Il gioco traspone il sistema pay-per-click, già tradizionale nella pubblicità online, nel mondo fisico. Il vero cliente di Niantic (editore del gioco e sussidiario di Google) è ancora una volta l’inserzionista, non il giocatore.

 

Inserzionista che pagherà solo quando il giocatore arriva nell’area target: questa è il pagamento per visita. L’azione dell’utente fa scattare il reddito: il “gioco” farà di tutto per spingere il giocatore dove il suo passaggio produrrà un profitto.

 

Allo stesso modo, non siamo sorpresi quando scopriamo che il robot aspiratore Roomba può captare la mappa della casa di chi è connesso e darla a Google Maps, che trova un modo per cartografare lo spazio privato, diventato nuova terra di conquista. Certo, possiamo rifiutare le condizioni di utilizzo dell’aspirapolvere e bloccare questo trasferimento di dati. Salvo che allora, sarà necessario fare a meno di varie funzionalità quale l’attivazione remota tramite un’app installata sul telefono. Dal punto di vista del consumatore, si tratta di una grave distorsione nei contratti che di solito lo legano al produttore: nel caso del degrado del prodotto acquistato, la garanzia funziona al 100% solo a certe condizioni.

 

Nel novembre 2018, Jim Hackett, amministratore delegato della Ford, ha indicato un nuovo paradigma per le case automobilistiche. Ha dichiarato a un intervistatore: “Il punto che voglio sviluppare è questo: in futuro avremo una marea di dati che provengono dai veicoli, dagli utenti di questi veicoli, dalle città che parlano di tali veicoli e dagli stessi concorrenti. La mia idea è che oggi abbiamo 100 milioni di persone che siedono in un veicolo blu-ovale della Ford. Questa è un’occasione unica per monetizzare questo stato di cose contro un concorrente (es. Tesla) che potrebbe avere, diciamo, 120 mila o 200 mila veicoli in circolazione. Confronta un attimo la scala dei due soggetti: da quale vorresti avere i dati?”.

 

“Sappiamo cosa fa la gente… sappiamo dove lavora; sappiamo se è sposata. Sappiamo da quanto tempo le persone vivono nella loro casa”. E conclude:” È questa la leva enorme che abbiamo con i dati”. A commento, afferma un analista del settore, “Ford potrebbe fare una fortuna monetizzando i dati. Non avranno bisogno di ingegneri, fabbriche o concessionari per farlo. È quasi un puro profitto”.

 

In questa logica, il capitalismo della sorveglianza si appropria dei nostri comportamenti e assorbe tutto il significato che esiste nei nostri corpi, nei nostri cervelli e nei nostri cuori. Non sei neanche “il prodotto”, sei la carcassa abbandonata. Il “prodotto” sono i dati in eccesso legati alla tua vita.

 

Quale sarà il prossimo passo auspicabile?

 

Si dovrà consentire ai clienti di gestire i propri dati come unici padroni degli stessi, con anche auto-gestione della propria privacy (“decido io a chi dare i dati”) e con ritorni economici per la concessione a terze parti per l’utilizzo degli stessi. Il tutto in ottemperanza dei dettati del GDPR, ma possibilmente con una ulteriore maggiore autotutela sulla gestione della privacy e sullo sfruttamento occulto di tali dati. Tale nuova logica presuppone l’utilizzo di soluzioni “sicure” (blockchain) basate sull’ ownership da parte dei clienti del flusso dei dati stessi in modo criptato e fruibile solo da aziende autorizzate, in cambio di token o vantaggi assimilabili (sconti, servizi aggiuntivi, ecc..). Ciò dovrà avvenire attraverso adeguati smart contracts sottoscritti dalle parti coinvolte.

 

Detto ciò, è chiaro che il capitalismo sta letteralmente cambiando pelle sotto i nostri occhi.

 

Molteplici settori partecipano ed intendono essere presenti in questi mercati nuovi e profittevoli: il commercio, la finanza e un sempre più ampio insieme di imprese di beni e servizi; e naturalmente per loro stessa natura lo sono anche le Assicurazioni.

 

Così come Google non indirizza più la pubblicità sulle parole chiave cercate, ma la rende visibile alle persone ritenute ‘pertinenti’, le Assicurazioni stanno iniziando a sfruttare sempre più questo nuovo mercato ripensando radicalmente l’intero flusso di lavoro, dalla fabbrica prodotto alla distribuzione e alla vendita.

 

I settori di copertura inizialmente interessati da queste soluzioni sono stati quelli relativi a viaggi (assistenza, ritardo volo, bagaglio) e infortuni per sport non agonistici. Per fare un esempio, prima della partenza per un week end in montagna, mi collego con il mio smartphone alla piattaforma insurtech dedicata e attivo: polizza assistenza in viaggio; copertura bagaglio; infortuni sulle piste da sci.

Oggi cominciano a comparire sul mercato anche soluzioni assicurative esclusivamente digitali dedicate alla copertura dei propri elettrodomestici o dispositivi elettronici come impianti Hi-Fi, smartTV, smartphone e tablet. Si tratta prevalentemente di coperture di assistenza e riparazione, attivabili ad esempio quando si è lontani da casa.

Altro ambito, probabilmente in crescita nei prossimi anni, è quello legato a specifiche coperture attivabili on demand in relazione alla mobilità: chi prende a noleggio un’auto anche per poco tempo (molte sono le opportunità di car rental/sharing nelle principali città) può attivare ad esempio una specifica copertura kasko temporanea, ad integrazione di quella già presente di default sul veicolo.
Gli ambiti assicurabili risultano in continua espansione: è possibile assicurarsi temporaneamente, ad esempio, per gli infortuni in mobilità o coprire – solo per un certo tempo – i propri animali domestici da infortunio o malattia.

 

Gli esempi oggi sono molteplici non solo nel campo delle coperture ma anche in quello dei servizi: negli Stati Uniti le macchine respiratorie utilizzate da persone che soffrono di asma incanalano i dati all’assicuratore, per consentire alla compagnia di essere proattiva nell’offrire il miglior servizio possibile.

 

Per le attività di assicurazione, in particolare, questa metamorfosi radicale pone alcuni quesiti di fondo. Fra questi il più denso di implicazioni è senza dubbio la mutualizzazione. Fino ad oggi, con questo concetto, s’intendeva la condivisione di un rischio, un debito, un impegno attraverso più soggetti, che ne diventano garanti. Ma oggi questo processo è ancora possibile? Ha senso parlare di mutualizzazione al tempo dei big data?

 

Nello scenario appena descritto si può facilmente comprendere che il principio di mutualizzazione così come lo conosciamo non ha più senso di esistere è semplicemente “estinto”, o in via di estinzione. Ma l’industria assicurativa fonda la sua ragione di esistere su questo principio. Mutualizzando, quindi condividendo i rischi con altri attori, il prezzo che pago è proporzionalmente inferiore al possibile danno che potrei subire se si concretizzasse un evento nefasto e distruttivo. Ma se si può determinare con un grado di precisione piuttosto elevato il prezzo del rischio che corro, ecco che il principio di mutualizzazione viene a decadere.

 

Ecco la grande trasformazione. Ognuno di noi ha un proprio prezzo del rischio che corre, ed è ciò che sarà disposto a pagare. Questo è il contesto in cui si devono muovere le compagnie assicurative sviluppando capacità di analisi predittiva basata sui big data, cosa che fino ad ora non è mai stata fatta. Le skills richieste sono quindi radicalmente diverse da quelle su cui questa industria è stata fondata. Così come per le case automobilistiche, dove si sta passando da una predominanza di ingegneri meccanici a informatici, elettronici ed esperti di software, nell’assicurazione del futuro le nuove competenze dovranno afferire alla sfera dell’analisi dei dati, della costruzione di algoritmi predittivi, ad un nuovo modo di comunicare in logica social, con l’attitudine empatica che permette di comprendere dove, quando e come vuole essere protetto il cliente.

 

Un cambiamento epocale, che mette alla prova le risorse individuali e la capacità delle aziende di reagire e prepararsi ad altri standard.

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