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L’attacco di Trump, il peso di Lebron James

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Il presidente e il fuoriclasse. Mancano poche ore al voto per la Casa Bianca e Donald Trump, in uno dei cinque comizi che hanno chiuso la sua campagna elettorale ha scelto con cura l’avversario da colpire. E non è stato Joe Biden, Sleepy Joe come lo chiama Trump, il contender per lo scranno presidenziale, ma Lebron James, assieme a Lady Gaga e Beyoncè, altre icone dello show business americano.

 

Lebron, il nemico. La ruggine tra i due va avanti da anni ormai, James gli diede anche del buffone via Twitter dopo il ritiro dell’invito da parte di Trump ai Golden State Warriors per la parata successiva al titolo Nba nel 2018, perché una parte della squadra si era dettata contraria alla stretta di mano presidenziale. Ma Trump che all’ultimo comizio per convincere gli indecisi si scaglia contro un cestista, seppur ricco e famoso, invece di sferrare pugni virtuali al rivale per il successo è la legittimazione indiretta di James, del suo peso mediatico, del ruolo assunto dal fuoriclasse dei Los Angeles Lakers nel corso della campagna elettorale. E si tratta anche di una svolta per lo sport americano, che ha sempre sostenuto un impegno politico, diversamente da quanto avviene in Europa.

 

La questione razziale è stata sempre al centro del ring, le violenze ai danni degli afroamericani un tema onnipresente, portato avanti da altri totem che hanno vissuto violenze e soprusi. Muhammad Alì, Bill Russell, John Carlos e Tommie Smith con il pugno in alto e sguardo in basso a Città del Messico 1968. Ma stavolta è diverso: James è stato citato sul palco, direttamente, a poche ore dal voto. Per Trump è un pericolo che può portare via voti. L’uomo a canestro percepito come un asset decisivo per l’esito elettorale, uno che può contare nella corsa alla Casa Bianca.

 

Ed è incredibile se si tiene conto da dove è partito Lebron James, ragazzo prodigio da un ghetto di Akron, Ohio, a un passo da Cleveland, riconosciuta negli Stati Uniti come The Mistake on the Lake, emerso senza un padre, con una mamma divisa tra più lavori per mantenere il figlio agli studi. “Non dovrei neppure essere qui”, disse Lebron dopo il secondo titolo Nba vinto con i Miami Heat, nel 2013, rispondendo alle critiche che lo accompagnano dal primo tiro a canestro. Quando è tornato a Cleveland per portare i Cavaliers a vincere il primo anello di sempre, ha generato con il suo solo nome un giro d’affari in città da 500 milioni di euro.

 

Negli anni James, oltre a magnete per sponsor (ha un accordo a vita con Nike), poi producer televisivo, imprenditore (ha ancora da parte le azioni del Liverpool) è divenuto volontariamente, esplicitamente, un fattore nell’opinione pubblica, usando la sua visibilità pubblica. Si è costruito una rete civica, sempre vicino all’area democrat, ha stretto rapporti con gli Obama, durante il fuoco di Black Lives Matter per la mattanza di neri da parte della polizia americana, fondando una no profit, More Than a Vote, per sensibilizzare e invitare al voto la comunità afro, un processo difficoltoso in alcune aree degli Stati Uniti.

 

“Lebron James sucks” gridato da Trump e i suoi accoliti al comizio è solo l’ultima tappa dell’evoluzione, sua e del peso dello sport. Se Biden vincerà, prima o poi si passerà all’incasso.

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