Il Coronavirus produce morti. Quelli diretti e quelli indiretti, i malati di altre patologie che scontano le disfunzioni di un sistema sanitario sotto pressione. Il Coronavirus produce danni sociali. Con le distanze che fanno male, soprattutto a chi le deve gestire in condizioni di disagio. Il Coronavirus produce danni economici, aggravati dall’evidenza che non sono equamente distribuiti: garantiti e non garantiti, lavoratori dipendenti e autonomi, chi ha disponibilità economiche e chi non ne ha.
Questi sono fatti. Difficilmente contestabili se non avventurandosi nel terreno melmoso dei negazionismi.
Poi ci sono il racconto e l’interpretazione dei fatti. Le notizie e l’informazione, il contributo divulgativo della comunità scientifica, le posizioni politiche. Ruotano, tutte, intorno alla ricerca del consenso.
Il Coronavirus diventa altro. Non è più un’epidemia da contrastare, con ogni mezzo e con la maggiore riduzione del danno possibile. Diventa un palcoscenico sul quale misurarsi per far prevalere la propria rappresentazione. Nella convinzione, a tratti perversa, che la gestione dell’emergenza possa alla fine portare un vantaggio personale, o almeno di parte. Il Coronavirus diventa lo scontro tra governo e governatori, diventa lo show di De Luca, il tweet di Toti, diventa anche la corsa a difendere il Natale.
Il risultato è il corto circuito che si innesca tra i fatti, la realtà, e la ricerca del consenso, una rappresentazione della realtà che prende strade improbabili.
Il problema principale è che questo corto circuito rischia di compromettere ogni sforzo serio compiuto per limitare i danni e per ridurre per quanto possibile la convivenza con il virus. Perché confonde le poche idee sane che devono prevalere. L’obiettivo non è un Natale sereno. Lo dice con una frase efficace il ministro della Salute Roberto Speranza: “Con questi morti di Covid è lunare parlare di un Natale normale”. L’obiettivo è fare dei prossimi mesi un passaggio difficile ma non fatale per la nostra società e la nostra economia.