Il passaggio sul ministero della transizione ecologica resterà un momento significativo nella formazione del governo Draghi. Nella scelta e nella modalità di comunicazione dell’ex presidente della Bce c’è molto di un metodo che può cambiare le regole e le condizioni del dibattito politico. Almeno per quella tregua che serve a rimettere in moto il Paese.
Sono i contenuti a dover fare la differenza. È all’interno di un programma che Draghi ha già ben chiaro che si possono trovare le formule che servono a garantire una maggioranza larga e, per quanto possibile, coesa. La transizione ecologica non è una soluzione estemporanea, così come un ministero ad hoc non è un’invenzione delle ultime ore. È scritta negli obiettivi del Recovery Fund, è la principale leva per ottenere le risorse stanziate dalla Commissione Ue. E l’accorpamento di ministeri, l’esatto contrario dello spacchettamento ipotizzato per dare spazio ai costruttori di varia natura del Conte ter, è una linea guida che Draghi avrebbe seguito comunque.
Quando ci si chiede, e in tanti se lo chiedono, come possa fare Draghi a rapportarsi con il verdetto di una piattaforma digitale privata, come Rousseau (a proposito, prima o poi bisognerà risarcire in qualche modo la memoria del povero Rousseau), la risposta è proprio nelle scelte che si possono fare all’interno di un perimetro ben definito.
Se le forze politiche vorranno riconoscersi o rivendicare un successo in una parte del programma di Draghi, l’ex presidente della Bce lascerà spazio. Se, al contrario, dovessero prevalere veti incrociati e pretese incompatibili con le cose da fare, Draghi chiuderà la porta. In questo senso, si ribalta la prospettiva. Non è il premier incaricato a cercare consenso ma i partiti che devono capire di poter incidere all’interno delle regole e di un percorso condiviso.
Un metodo e uno schema che non sono quelli abituali per la politica italiana ma che rappresentano una garanzia di discontinuità. E, nelle ambizioni di Draghi, la strada per risollevare il Paese.