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Berlusconi, dal centrodestra all’eredità imprenditoriale: l’intervista a Fortune Italia

Il suo progetto, ora, si chiama partito unico del centro-destra. Anche perché è convinto che la competizione interna sia positiva finché non diventa eccessiva. Silvio Berlusconi guarda già al 2023. D’altra parte, spiega, è solo allora che si apriranno i giochi visto che questo governo deve “portare a compimento” la sua mission fino a scadenza naturale. Ma anche allora, non è detto che i tecnici come Mario Draghi, i “migliori”, debbano necessariamente farsi da parte. Della partita del Quirinale preferisce non parlare, ma elogia Sergio Mattarella sapiente e “autorevole garante”. E si dice orgoglioso dei figli che, guidano “con mano sicura” le aziende e hanno scelto di non seguire le sue orme in politica.

Forza Italia è stata tra i fautori del governo Draghi. Ora il Paese è atteso alla sfida dell’attuazione del Pnrr. Qual è secondo lei la riforma più urgente tra tutte, quella senza la quale si rischia di fallire questa occasione?

Certamente la riforma fiscale, che significa una netta riduzione delle tasse per famiglie e imprese. Senza questo, l’Italia non potrà mai ripartire. Dobbiamo consentire alle imprese di tornare a fare utili e alle famiglie di risparmiare e di spendere, per fare riprendere investimenti, consumi e occupazione.

Ritenete sempre che la soluzione sia la flat tax?

Il nostro obiettivo è la flat tax, ma siamo consapevoli che oggi, in questo Parlamento, non ci sono le condizioni per realizzarla. Se ne occuperà il prossimo governo di centro-destra. Ma non possiamo attendere fino ad allora. Con il carico fiscale di oggi nessuna ripresa è possibile. Da qui la nostra proposta, che comprende una no-tax area per i primi 12.000 euro di reddito annuo e aliquote ridotte per i redditi superiori. In questo modo chi guadagna fino a mille euro al mese non pagherebbe nessuna tassa, gli altri redditi medio-bassi risparmierebbero – e quindi avrebbero a disposizione – dai 100 ai 400 euro mensili. A fianco di questo consideriamo necessario il blocco delle cartelle esattoriali fino al 31 dicembre: il 2021 deve diventare un anno bianco fiscale. E comunque tutto il contenzioso tributario va chiuso in termini ragionevoli, tali da non mandare sul lastrico famiglie e imprese che sono già in difficoltà. Scontato infine il nostro no assoluto a qualsiasi forma di patrimoniale o di tassa di successione, che significherebbe tassare due volte capitali e beni già tassati all’origine.

La presenza di un tecnico è diventata a un certo punto indispensabile per completare il Piano di rinascita e resilienza. Crede che questo abbia cambiato il Dna della politica italiana o che, finita questa fase, si chiuderà anche il tempo dei tecnici?

Sinceramente non mi ha mai troppo appassionato la contrapposizione tecnici-politici. Il Paese ha bisogno di competenze al massimo livello e il presidente Draghi, per il suo stesso curriculum, dà le massime garanzie di autorevolezza. Non per caso del resto sono stato proprio io, da presidente del Consiglio, a volerlo alla guida di Bankitalia e poi a imporlo in Europa alla guida della Bce. Ma le competenze non sono mai neutre e la distinzione fra tecnici e politici ha un valore relativo. Un buon tecnico fa delle scelte politiche e un buon politico deve avere competenza ed esperienza. Io stesso non sono un politico di professione, non mi sono mai sentito tale, nonostante da decenni abbia abbandonato il lavoro che amavo e nel quale ho avuto grandi soddisfazioni. Quello che auspico è che figure di alto livello professionale continuino a dare il proprio contributo al governo della nazione e che nello stesso tempo tornino le condizioni per governi espressione della volontà dei cittadini. Per prepararci a questo, ho lanciato in vista del 2023 la proposta del Centro destra unito, o Centro destra italiano.

Non teme che la combinazione tra semestre bianco, che scatta ad agosto, e le amministrative di ottobre possano rendere difficile il prosieguo del governo Draghi?

Non credo. Il Governo ha un compito fondamentale, quello di far uscire il Paese dalla peggiore crisi del dopoguerra. Lo abbiamo voluto per questo, sono stato io il primo a chiederlo, come soluzione eccezionale per tempi eccezionali. Deve finire il suo compito: sul piano sanitario la situazione va migliorando, grazie a una campagna vaccinale che corrisponde a quella che noi avevamo proposto. Sul piano economico invece si vedono appena i primi timidissimi segni di ripresa e forse si tratta solo di quello che gli economisti definiscono un ‘rimbalzo tecnico’. In ogni caso il cammino per la ripartenza è ancora lungo. Dobbiamo utilizzare al meglio le risorse del Recovery plan, risorse che abbiamo ottenuto a un livello elevato grazie all’impegno mio e dell’onorevole Tajani nei confronti dei nostri colleghi del Partito popolare europeo.

Sta per scadere il mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, lei ha avuto un rapporto complicato con il suo predecessore. Che giudizio dà invece di questo settennato?

Io ho sempre avuto un atteggiamento di rispetto istituzionale verso il capo dello Stato, come è doveroso al di là di ogni questione politica. Posso dire che il presidente Mattarella incarna al meglio il ruolo di autorevole garante delle istituzioni democratiche che gli assegna la Costituzione. Lo fa con la sapienza del giurista e la sensibilità dell’uomo delle istituzioni.

Che ne pensa di chi candida Draghi al Quirinale?

Penso che ogni indicazione sia ampiamente prematura. Solo allo scadere del mandato del presidente Mattarella, che ancora per molti mesi è nel pieno esercizio delle sue funzioni, verrà il momento di pensare a questo.

A suo giudizio, quella tra Salvini e Meloni è una sana competizione che fa bene al centro-destra o al contrario lo destabilizza?

Da liberale non potrei mai pensare che la concorrenza e la competizione siano un male. Servono a far crescere il fatturato politico, cioè i voti, ma anche – per conquistarli – a migliorare la qualità dell’offerta politica. Però la concorrenza non dev’essere eccessiva e non deve far perdere di vista che il popolo del centro-destra ci chiede di essere uniti.

Da padre del centro-destra quale consiglio darebbe al leader della Lega e quale alla presidente di Fdi?

Nelle democrazie mature di tipo anglosassone, le idee del centro e della destra democratica sono espresse da un solo partito, come i Repubblicani negli Stati Uniti o i Conservatori nel Regno Unito. Un partito nel quale convivono anime diverse e dove vi è una virtuosa competizione interna. Io credo che non sia un sogno quello di realizzare un partito simile anche in Italia. È il mio obiettivo finale, al quale penso fin dal 1994 e che oggi può finalmente trovare compimento. La pandemia ha cambiato molte cose ed è necessario che il sistema della rappresentanza politica si adegui al cambiamento. Noi possiamo farlo – lo dico innanzitutto proprio a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni – riorganizzando la nostra metà campo, quella del centro-destra, in termini europei e occidentali.

Quale ritiene sarà la sua eredità politica più importante?

Il giorno lontano nel quale dovessi lasciare la politica vorrei aver realizzato proprio questo: un grande partito del centro-destra unito, in competizione con un centro-sinistra che a sua volta avesse trovato un assetto stabile. Quindi due forze politiche in grado di confrontarsi con rispetto reciproco, in condizioni di serenità, stabilità e sicurezza democratica. Perché questo avvenga bisogna naturalmente che nel nostro centro-destra vi sia una forte anima liberale, cristiana, europeista, garantista. Quella rappresentata da Forza Italia, la cui funzione non verrà mai meno.

E quale quella più significativa dell’imprenditore?

Le grandi imprese non vivono di eredità ma della continua capacità innovativa e di trasformazione che la proprietà e il management sanno dimostrare. Mi pare che questo già avvenga nelle aziende che ho fondato e che ora i miei figli e i manager guidano con mano sicura e con visione del futuro. Questa è una cosa che sono orgoglioso di aver insegnato loro: la capacità di guardare avanti, di anticipare i cambiamenti, di accettare sfide anche difficili. Non si tratta di incoscienza, naturalmente, ma di quel rischio calcolato che è alla base di ogni attività d’impresa di successo.

Il Berlusconi imprenditore è stato capace di costruire un impero, e poi di difenderlo, negli anni. C’è una scelta delle tante che ha fatto che, tornando indietro, non rifarebbe?

“Non, je ne regrette rien“, è il titolo di una bellissima canzone di Édith Piaf – i lettori sanno che io amo la musica francese – ma è anche uno dei motti della mia vita. Quando ero bambino e mio padre mi portava a vedere il Milan, se perdevamo ero molto abbattuto. Perdere non mi è mai piaciuto, naturalmente. Ma mio padre mi ha insegnato a pensare alla vittoria della prossima partita, non alla sconfitta dell’ultima.

Guardando alla situazione economica e al tessuto produttivo italiano, ci sono le condizioni perché un nuovo Berlusconi possa emergere e ripercorrere una strada simile alla sua?

Potrei dirle che esistono già parecchi nuovi Berlusconi, ho cinque figli bravissimi e quattordici nipoti fantastici. Ma non percorreranno una strada simile alla mia, percorreranno la loro. I miei figli la stanno percorrendo da tempo, con risultati che mi rendono davvero orgoglioso. Soprattutto, per loro decisione, staranno lontani dalla politica: la nostra famiglia ha già pagato alla politica un prezzo abbastanza pesante. Non voglio però aggirare la sua domanda. Le cose che ho fatto da imprenditore le ho fatte in un momento storico preciso e ovviamente irripetibile. Ho creato città-giardino d’avanguardia con tre diversi tipi di strade, quando per molti colleghi costruire significava stendere una colata di cemento, ho rotto il monopolio dell’informazione televisiva quando sembrava impossibile, ho preso una squadra di calcio dal passato glorioso ma sull’orlo del fallimento e ne ho fatto il team più titolato del mondo. Chi si accosta oggi alla realtà dell’impresa ha davanti sfide diverse, basate soprattutto sulla tecnologia. Ma sono certo che vi saranno sempre persone che avranno il gusto del rischio, la voglia di innovare, l’entusiasmo che porta ad alzare l’asticella delle sfide sempre più in alto, l’ottimismo razionale e la ‘lucida visionaria follia’ che consentono di creare qualcosa di nuovo. Quindi certo, ci saranno nuovi bravi imprenditori, ma ovviamente molto diversi da me.

Il confronto/scontro tra Mediaset e Vivendi è stato anche il confronto fra due personalità forti, la sua e quella di Vincent Bolloré. Cosa ha rappresentato per lei e che valore ha l’accordo che è stato raggiunto?

Non è mai stata una sfida personale. Io anzi ho sempre creduto nell’utilità delle sinergie, specialmente in un ambito come quello della televisione e dell’audiovisivo nel quale per ottenere buoni risultati è necessaria una massa critica adeguata. Il polo televisivo europeo è sempre stato uno degli obiettivi delle aziende della mia famiglia. Le condizioni di instabilità che si erano create nella governance del gruppo avrebbero potuto fare male a tutte le parti interessate e soprattutto non avrebbero giovato alla condizione di aziende che hanno bisogno di attraversare con serenità un momento complesso, una fase di trasformazione per l’intero sistema economico europeo e mondiale. Sono lieto che le incomprensioni siano state felicemente superate. La mia famiglia desidera soltanto svolgere il suo ruolo di socio di maggioranza con spirito costruttivo nell’interesse del gruppo e di tutti gli azionisti.

Infine una sua grande passione, il calcio. Lei si è detto contrario all’idea di Superlega. Quello del suo Milan era però un calcio profondamente diverso da quello di oggi. Come si affronta una crisi che sconta soprattutto costi eccessivi?

Sulla Superlega ho detto soltanto questo. Non si può realizzare un progetto, buono o cattivo che sia, se non ha il consenso dei suoi principali destinatari, che nel calcio sono i tifosi. Non bisogna mai dimenticare che si gioca per loro e grazie a loro. Senza il pubblico pagante, gli abbonati, gli spettatori televisivi, gli acquirenti dei merchandising il mondo del calcio non avrebbe risorse, i giocatori, i tecnici, le squadre, gli impianti non potrebbero essere pagati o finanziati e tutto finirebbe. Bisogna avere il massimo rispetto per chi mette in gioco il proprio cuore e il proprio portafoglio. Di conseguenza la Superlega è un progetto quantomeno inattuale.

Cosa suggerisce quindi?

Certo, rimane il problema di un calcio che è molto diverso da quello nel quale sono entrato quando acquistai il Milan a metà degli anni ’80. Il fatto che le società calcistiche fossero imprese e andassero gestite come tali mi era ben chiaro già allora. Ma oggi le dimensioni dei costi, degli ingaggi e dei fatturati necessari per sopravvivere ad alti livelli sono quelle di una multinazionale. Per questo ho ceduto il Milan, con profondo dolore: nel calcio di oggi una famiglia, per quanto benestante, non è più in grado di farsi carico degli enormi oneri che il calcio comporta. Devo però dire che in una dimensione diversa ho ritrovato nel Monza l’entusiasmo, la voglia di fare bene, il gusto di una nuova scommessa, che ci ha già portato a risultati importanti. Il prossimo traguardo sarà finalmente la serie A, già sfiorata quest’anno pur essendo appena neo-promossi dalla serie inferiore. Vale ancora la pena di occuparsi di calcio, è il gioco più bello del mondo, anche se alcuni eccessi lo stanno rendendo quasi impossibile. In un momento di grande affanno per l’economia mondiale anche il calcio sarà costretto a ridimensionare i suoi costi, per poter andare avanti.

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