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Lo Stato imprenditore

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Nel 1300 il grande pensatore arabo Ibn Khaldun scriveva: “Quando chi governa, che possiede molto più denaro dei sudditi, si mette in competizione con loro, nessuno sarà più in grado di ottenere le cose che vuole e tutti saranno inquieti e infelici”.

Questo è un fatto che conosciamo da secoli, da molto prima che lo studio dell’economia acquistasse una propria autonomia scientifica, e che l’umanità ha più volte sperimentato. Eppure ci ricaschiamo periodicamente. In forme e modi solo apparentemente diversi, lo Stato-imprenditore continua a riaffacciarsi nella nostra vita.

Il valore di mercato complessivo delle imprese quotate nella Borsa Italiana è di circa 650 mld. Per quasi un terzo quelle azioni sono possedute dallo Stato. E la sua quota, dopo la straordinaria stagione delle privatizzazioni dei primi anni ‘90, non fa che crescere.

Agli innumerevoli settori nei quali lo Stato è al tempo stesso regolatore, controllore e controllato, si sono di recente tornate ad aggiungere le autostrade. Quasi non fosse di per sé evidente che un sistema nel quale queste tre posizioni coincidono in un unico soggetto sia il peggiore dei mondi possibili.

Negli anni ’60 e ’70 lo Stato concentrò le sue attenzioni, qualcuno direbbe le sue mire, sulle grandi imprese del cosiddetto ‘triangolo industriale’ (Piemonte, Lombardia e Liguria) e sul tentativo di sviluppare l’industria nel Mezzogiorno.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la grande industria del Nord-Ovest ha visto declinare il suo ruolo, e lo sviluppo del Mezzogiorno è rimasto nei libri dei sogni delle politiche industriali.

Per fortuna, lo Stato si occupò meno di quel che restava; e proprio lì, in quella che con efficacia fu allora chiamata la ‘terza Italia’ (Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Marche), della quale lo Stato non si occupava, si svilupparono imprese piccole e medie, spesso operanti in settori che allora con un qualche disprezzo la cultura ufficiale chiamava ‘tradizionali’ (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, piastrelle) che tennero a galla l’Italia.

Più di recente, l’energia dello Stato è stata tutta assorbita dal tentativo di tenere sotto controllo un deficit e un debito pubblico che mettevano a rischio la permanenza dell’Italia nell’Unione europea, e dall’interminabile quanto inconcludente dibattito sulle ‘riforme di struttura’ che avrebbero dovuto metterci in condizione di riprendere il percorso dello sviluppo.

Nel frattempo, ignorate dalla politica, alcune piccole e medie imprese italiane si trasformavano in ‘multinazionali tascabili’, innovavano prodotti e processi, presidiavano con le unghie e con i denti le proprie quote sui mercati internazionali. Ma purtroppo nulla sfugge all’occhio lungo del nuovo Leviatano. Ed ecco che la politica comincia a occuparsi anche di quel che aveva trascurato.

Così discute l’efficacia della gestione manageriale di queste imprese, le dichiara ‘strategiche’ e quindi ne ostacola la circolazione della proprietà deprimendone il valore, offre loro risorse finanziarie e garanzie pubbliche sul credito con mille strumenti (fondi più o meno “strategici”, strumenti di garanzia nati nell’emergenza pandemica che si vuole prorogare, “patrimoni destinati” gestiti da Cassa depositi e prestiti…), rischiando di infiacchirne lo spirito imprenditoriale e di condurre anche loro a una selezione basata sulla capacità di appropriarsi di risorse pubbliche piuttosto che sulla capacità di venire incontro alle esigenze dei clienti.

La situazione è tanto preoccupante che anche un governatore della Banca d’Italia non certo istintivamente propenso al liberismo, nelle sue ultime Considerazioni finali ha sentito la necessità di ricordare che “l’esperienza storica suggerisce che la produzione pubblica di beni e di servizi di mercato porta con sé rischi non trascurabili di fallimento dello Stato”, e quindi “non bisogna (però) confondere la necessità di uno Stato più efficace nello svolgere le funzioni che già ora gli sono affidate con quella di estenderne i compiti”.

Ve ne è di che riempire l’agenda di governo: anzitutto verso un non-fare, piuttosto che fare-di-più. Difficile chiedere a un governo nato nell’emergenza della pandemia, e che su una maggioranza di emergenza basa il suo consenso parlamentare, epocali riforme del fisco, della giustizia, della amministrazione pubblica.

Dovremo accontentarci di riforme che mettano un po’ di ordine e risolvano le contraddizioni più macroscopiche. Ma forse gli si può chiedere di tornare, con la prossima legge di bilancio, a mettere nei conti previsioni di entrata legate alla cessione di un po’ di quelle tante azioni possedute – come si diceva un terzo del valore di borsa delle imprese italiane.

E magari, a differenza del passato più recente, realizzare quelle previsioni. Sarebbe già un segnale: che non si intende proseguire senza limiti nella nuova espansione dello stato imprenditore.

 

La versione originale di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di luglio/agosto 2021.

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